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IL SANTO DEL GIORNO

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Messaggio  Attilio Citrino Mer 7 Dic - 11:11

Santo del giorno di oggi è Sant'Ambrogio - Sant’Ambrogio, il patrono di Milano, nacque verso il 340 a Treviri, da famiglia cristiana. Il padre era prefetto delle Gallie. Ancor giovane ebbe un’ottima educazione retorica e giuridica a Roma e da qui verso il 370 raggiunse Milano, per governare le province dell’Emilia e della Liguria. Era il più alto magistrato dell’Impero nell’Italia settentrionale.
A Milano Ambrogio trovò una città fortemente divisa tra cattolici e ariani, soprattutto dopo la morte del vescovo ariano Aussenzio: la sua opera di pacificazione degli animi, la sua ferma saggezza gli conquistarono l’ammirazione del popolo milanese, che lo acclamò, pur essendo egli semplice catecumeno, suo vescovo. Tutta la cultura che egli aveva assorbito da Roma antica gli valse la velocità e la penetrazione della Scrittura e delle opere dei Padri sulle quali si baserà d’ora in poi la sua azione pastorale e la sua cospicua opera letteraria. Da Origene Ambrogio importò il metodo della lectio divina, ossia di quell’ascolto nella preghiera della parola di Dio, dalla quale scaturisce ogni altra riflessione cristiana.
L’efficacia oratoria di sant’Ambrogio era molto nota. Ne è testimonianza un passo delle Confessioni in cui Agostino racconta di essere andato a sentire Ambrogio e di essere rimasto affascinato, da retore famoso e da uomo scettico, dal modo di parlare del vescovo, ma anche dalla compattezza della Chiesa milanese, che pregava e cantava come un sol uomo.
Un altro episodio, di natura completamente diversa, è rimasto famoso nella vita di Ambrogio, quando egli scomunicò l’imperatore Teodosio, reo di aver ordinato nel 380 la strage di Tessalonica. L’imperatore dovette piegarsi a chiedere perdono per essere di nuovo ammesso ai riti sacri. Non è qui tanto da vedersi lo scontro tra il potere civile e quello ecclesiastico, quanto la fermezza e il prestigio di un pastore nei confronti di un membro della Chiesa che si era macchiato di una colpa efferata.
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Messaggio  Attilio Citrino Gio 8 Dic - 12:19

IMMACOLATA CONCEZIONE
Piena di grazia

La verità dell'Immacolata Concezione (che riguarda il concepimento di Maria, e non il concepimento verginale di Ges) fu sempre creduta dai cristiani, ma può destare meraviglia il fatto che essa sia stata "definita dogmaticamente" solo nel 1854, dal papa Pio IX. Comprendere il perché di questo "ritardo" aiuta molto a capire, in maniera piena e matura, il contenuto di questa "verità di fede". Il problema, dibattuto per molti secoli, fu questo: l'istinto della fede diceva ai cristiani che Maria era stata sempre e totalmente immune da ogni macchia di peccato, anche da quello originale. Ma alcuni teologi obiettavano così: se Gesù ha dato la sua vita per redimerci dai peccati, dicendo che Maria non ha mai avuto alcun peccato (nemmeno quello d'origine, comune a tutte le creature), non si finiva con lo staccarla e allontanarla proprio da Gesù e dalla sua redenzione? La definizione pontificia («Dichiariamo che la beatissima Vergine Maria nel primo istante della sua concezione è stata preservata immune da ogni macchia della colpa originale») venne solo quando fu assolutamente chiaro per tutti che non si intendeva affatto sottrarre Maria all'azione redentrice di Suo Figlio, ma sì voleva anzi affermare che Ella era stata redenta totalmente e anticipatamente («in modo più sublime»). È in questo senso che può essere compreso il bellissimo titolo che Dante riserva alla Vergine Santa, quando la chiama «Figlia del tuo Figlio». Fu sotto la Croce che Maria capì l'origine di quel privilegio che l'aveva «riempita di grazia» nello stesso istante del suo concepimento. Quattro anni dopo la definizione pontificia, la Vergine apparirà a Lourdes, manifestandosi a Bernadette proprio con questo nome: «Io sono l'Immacolata Concezione». Altri santi: Santa Sabina e sorelle, martiri nelle Fiandre (IX sec.); San Natale Chabanel (gesuita, martire in Canadà, 1613-1649). Letture: «Ella fu la madre di tutti i viventi» (Genesi 3.9-15.20); «Il Signore si è ricordato del suo Amore» (Salmo 97); «In Cristo Dio ci ha scelti prima della creazione del mondo» (Efesini 1,3-6.11-12); «Ave, piena di grazia!» (Luca 1,26-38).
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Messaggio  Attilio Citrino Ven 9 Dic - 11:36

Juan Diego
Il mondo cristiano è pieno di santuari mariani, edificati in luoghi dove la Vergine è apparsa (quasi sempre a gente umile, spesso a dei poveri fanciulli) per richiamare maternamente i cristiani ad una maggiore fedeltà, tenerezza e obbedienza nei riguardi del suo Gesù. Accadde anche a Juan Diego, un giovane contadino meticcio di origine azteca, da poco sposato e da poco convertito, nel Messico devastato dagli spagnoli conquistadores. Al ragazzo la Vergine chiede di farsi suo messaggero. Vuole che vada a chiedere al vescovo di costruirle un tempio: «Una casa dove lei possa mostrare tutto il suo amore», per quel popolo così tormentato. Ma il vescovo non si piega alle richieste del povero indio. Per tre volte la Vergine insiste inutilmente. Alla quarta apparizione, Ella fa trovare al ragazzo una straordinaria fioritura di rose, e gli chiede di raccoglierle nel suo mantello e di portarle al prelato. Ed ecco il prodigio: quando il ragazzo apre il mantello, per offrire al vescovo le rose che la Signora gli invia, sul mantello c'è impressa una commovente immagine della Vergine con sembianze meticce. Oggi essa è conosciuta e venerata in tutto il mondo col nome di Madonna di Guadalupe. I messicani la chiamano con affetto La Morenita. E gli storici dicono che si deve soprattutto a lei la conversione al cristianesimo del popolo messicano. Juan Diego trascorse gli ultimi 17 anni della sua vita come custode del santuario che il vescovo aveva fatto edificare, sempre preoccupato di diffondere quel messaggio di consolazione, di pacificazione e di speranza che la Vergine gli aveva affidato. Fu elevato agli onori degli altari da papa Giovanni Paolo II nel 1990. Altri santi. Pietro Fourier, sacerdote (1565-1640); Siro di Pavia (IV sec.); beato Bernardo Silvestrelli, passionista (1831-1911). Letture. «Io sono il Signore tuo Dio, che ti educo per il tuo bene» (Isaia 48,17-19); «Beato l'uomo che medita giorno e notte la Legge del Signore» (Salmo 1); «Simili a fanciulli seduti sulle piazze…» (Matteo 11,16-19). Ambrosiano. Ezechiele 35,1; 36,1-7; Salmo 30; Osea 3,4-5; Matteo 21,23-27.
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Messaggio  Attilio Citrino Dom 11 Dic - 11:48

III domenica di Avvento
La gioia per Sion

L'invito alla gioia caratterizza le letture di questa domenica. L'immagine-guida è la santa città di Sion, rinnovata dall'amore di Dio: Egli appare in questa domenica non solo come il Padre, ma anche come lo Sposo. Siamo introdotti, dunque, nel cuore dell'attesa credente: ciò che si attende non è semplicemente un "risultato" (come potrebbe essere la trasformazione del mondo, la felicità, la pace, la serenità?), ma una relazione, un rapporto di amore che giunge alla sua pienezza.Sion diventa così immagine delle comunità cristiane, chiamate ad essere oasi di gioia in un mondo agitato dalla insoddisfazione, sempre alla ricerca di espedienti per evadere. Sion diventa immagine di una possibile comunità umana, in cui la giustizia possa avere uno spazio sempre più grande.


Altri Santi del giorno

Savino, vescovo di Piacenza (V sec.);
beato Girolamo da sant'Angelo in Vado (1410-1468).
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Messaggio  Attilio Citrino Lun 12 Dic - 10:09

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Santi Epimarco e Alessandro

Epimaco e di Alessandro, cristiani di Alessandria, in Egitto, furono arrestati e processati al tempo delle persecuzioni di Decio, cioè nell'anno 250. Secondo la Passio a loro attribuita, i due cristiani, ostinandosi a confessare la propria fede e a negare il sacrificio all'Imperatore, vennero rinchiusi in un orrido carcere, avvinti da pesanti catene. Ne furono tratti fuori per subire rinnovati tormenti, dopo di che, perdurando i due nel rifiutarsi all'apostasia, Epimaco e Alessandro furono gettati, si narra, in una fossa piena di calce viva, che soffocò la loro vita e consumò i loro corpi. Questo avveniva, come abbiamo detto, nell'anno 250, e la data del martirio, secondo lo storico Eusebio da Cesarea, sarebbe stata il 12 dicembre, giorno nel quale cade perciò la memoria di Epimaco e Alessandro Martiri. Le reliquie del primo, cioè di Sant'Epimaco, furono in seguito portate a Roma, e deposte in un sepolcro sotterraneo. E qui la vicenda del Martire di Alessandria si lega a quella di un Martire di Roma, Gordiano, giudice di tribunale al tempo dell'Imperatore Giuliano l'Apostata, cioè verso il 360. Quando si aprì la nuova persecuzione dell'Imperatore apostata, l'inevitabile crisi si produsse. Il giudice Gordiano, testimone immediato della rinnovata fermezza e pazienza dei cristiani, saltò dall'altra parte del fosso, convertendosi e unendosi ai perseguitati. Denunziato dopo il Battesimo, venne a sua volta processato, condannato, e decapitato nell'anno 362. Come sepoltura per il suo corpo, venne scelto proprio il sotterraneo dove riposavano, da tempo, le reliquie del Martire Epimaco, così che i nomi del giudice romano e del cristiano di Alessandria, vissuti a distanza di più di un secolo, vennero riuniti in coppia, facendosi memoria di loro il 10 maggio, benché il sant'Epimaco di maggio sia lo stesso personaggio ricordato in dicembre, con sant'Alessandro. La storia dei due martiri, o meglio del loro culto, ha un seguito dopo un altro salto di secoli, perché la Regina Ildegarda, sposa di Carlo Magno, ottenne nel 774 parte delle loro reliquie, che fece trasportare nell'abbazia di Kempten, in Germania, di cui sono ancora i principali Patroni.
I loro resti rimasti a Roma si trovano oggi nella Basilica di San Giovanni in Laterano, sotto l'altare del Presepio, mentre Gordiano - questa volta solo, senza Epimaco - è uno dei patroni della città di Palestrina, presso Roma. (Paola Bergamini)
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Messaggio  Attilio Citrino Mar 13 Dic - 12:33

Santa Lucia Vergine e martire
La vergine e martire Lucia è una delle figure più care alla devozione cristiana. Come ricorda il Messale Romano è una delle sette donne menzionate nel Canone Romano. Vissuta a Siracusa, sarebbe morta martire sotto la persecuzione di Diocleziano (intorno all'anno 304). Gli atti del suo martirio raccontano di torture atroci inflittele dal prefetto Pascasio, che non voleva piegarsi ai segni straordinari che attraverso di lei Dio stava mostrando. Proprio nelle catacombe di Siracusa, le più estese al mondo dopo quelle di Roma, è stata ritrovata un'epigrafe marmorea del IV secolo che è la testimonianza più antica del culto di Lucia. Una devozione diffusasi molto rapidamente: già nel 384 sant'Orso le dedicava una chiesa a Ravenna, papa Onorio I poco dopo un'altra a Roma. Oggi in tutto il mondo si trovano reliquie di Lucia e opere d'arte a lei ispirate.
Gli atti del martirio di Lucia di Siracusa sono stati rinvenuti in due antiche e diverse redazioni: l’una in lingua greca il cui testo più antico risale al sec. V (allo stato attuale delle ricerche); l’altra, in quella latina, riconducibile alla fine del sec. V o agli inizi del sec. VI ma comunque anteriore al sec. VII e che di quella greca pare essere una traduzione.
La più antica redazione greca del martirio contiene una leggenda agiografica edificante, rielaborata da un anonimo agiografo due secoli dopo il martirio sulla tradizione orale e dalla quale è ardua impresa sceverare dati storici. Infatti, il documento letterario vetustiore che ne tramanda la memoria è proprio un racconto del quale alcuni hanno messo addirittura in discussione la sua attendibilità. Si è giunti così, a due opposti risultati: l’uno è quello di chi l’ha strenuamente difesa, rivalutando sia la storicità del martirio sia la legittimità del culto; l’altro è quello di chi l’ha del tutto biasimata, reputando la narrazione una pura escogitazione fantasiosa dell’agiografo ma non per questo mettendo in discussione la stessa esistenza storica della v. e m., come sembrano comprovare le numerose attestazioni devozionali, cultuali e culturali in suo onore.
Sia la redazione in greco sia quella in latino degli atti del martirio hanno avuto da sempre ampia e ben articolata diffusione, inoltre entrambe si possono considerare degli archetipi di due differenti ‘rami’ della tradizione: infatti, dal testo in greco sembrano derivare numerose rielaborazioni in lingua greca, quali le Passiones più tardive, gli Inni, i Menei, ecc.; da quello in latino sembrano, invece, mutuare le Passiones metriche, i Resumé contenuti nei Martirologi storici, gli Antifonari, le Epitomi comprese in più vaste opere, come ad es. nello Speculum historiale di Vincenzo da Beauvais o nella Legenda aurea di Iacopo da Varazze.
I documenti rinvenuti sulla Vita e sul martirio sono vicini al genere delle passioni epiche in quanto i dati attendibili sono costituiti solo dal luogo e dal dies natalis. Infatti, negli atti greci del martirio si riscontrano elementi che appartengono a tutta una serie di composizioni agiografiche martiriali, come ad es. l’esaltazione delle qualità sovrumane della martire e l’assenza di ogni cura per l’esattezza storica. Tuttavia, tali difetti, tipici delle passioni agiografiche, nel testo greco di Lucia sono temperate e non spinte all’eccesso né degenerate nell’abuso. Proprio questi particolari accostano gli atti greci del martirio al genere delle passioni epiche.
Sul piano espositivo l’andamento è suggestivo ed avvincente, non mancando di trasmettere al lettore emozioni e resoconti agiografici inconsueti attraverso un racconto che si snoda su un tessuto narrativo piuttosto ricco di temi e motivi di particolare rilievo: il pellegrinaggio alla tomba di Agata (con il conseguente accostamento Agata/Lucia e Catania/Siracusa); il sogno, la visione, la profezia e il miracolo; il motivo storico; l’integrità del patrimonio familiare; la lettura del Vangelo sull’emorroissa; la vendita dei beni materiali, il Carnale mercimonium e la condanna alla prostituzione. Infatti è stretta la connessione tra la dissipazione del patrimonio familiare e la prostituzione per cui la condanna al postrìbolo rappresenta una legge di contrappasso sicché la giovane donna che ha dilapidato il patrimonio familiare è ora condannata a disperdere pure l’altro patrimonio materiale, rappresentato dal proprio corpo attraverso un’infamante condanna, direttamente commisurata alla colpa commessa; infine, la morte.
Il martirio incomincia con la visita di Lucia assieme alla madre Eutichia, al sepolcro di Agata a Catania, per impetrare la guarigione dalla malattia da cui era affetta la madre: un inarrestabile flusso di sangue dal quale non era riuscita a guarire neppure con le dispendiose cure mediche, alle quali si era sottoposta. Lucia ed Eutichia partecipano alla celebrazione eucaristica durante la quale ascoltano proprio la lettura evangelica sulla guarigione di un’emorroissa. Lucia, quindi, incita la madre ad avvicinarsi al sepolcro di Agata e a toccarlo con assoluta fede e cieca fiducia nella guarigione miracolosa per intercessione della potente forza dispensatrice della vergine martire. Lucia, a questo punto, è presa da un profondo sonno che la conduce ad una visione onirica nel corso della quale le appare Agata che, mentre la informa dell’avvenuta guarigione della madre le predice pure il suo futuro martirio, che sarà la gloria di Siracusa così come quello di Agata era stato la gloria di Catania. Al ritorno dal pellegrinaggio, proprio sulla via che le riconduce a Siracusa, Lucia comunica alla madre la sua decisione vocazionale: consacrarsi a Cristo! A tale fine le chiede pure di potere disporre del proprio patrimonio per devolverlo in beneficenza. Eutichia, però, non vuole concederle i beni paterni ereditati alla morte del marito, avendo avuto cura non solo di conservarli orgogliosamente intatti e integri ma di accrescerli pure in modo considerevole. Le risponde, quindi, che li avrebbe ereditati alla sua morte e che solo allora avrebbe potuto disporne a suo piacimento. Tuttavia, proprio durante tale viaggio di ritorno, Lucia riesce, con le sue insistenze, a convincere la madre, la quale finalmente le da il consenso di devolvere il patrimonio paterno in beneficenza, cosa che la vergine avvia appena arrivata a Siracusa. Però, la notizia dell’alienazione dei beni paterni arriva subito a conoscenza del promesso sposo della vergine, che se ne accerta proprio con Eutichia alla quale chiede anche i motivi di tale imprevista quanto improvvisa vendita patrimoniale. La donna gli fa credere che la decisione era legata ad un investimento alquanto redditizio, essendo la vergine in procinto di acquistare un vasto possedimento destinato ad assumere un alto valore rispetto a quello attuale al momento dell’acquisto e tale da spingerlo a collaborare alla vendita patrimoniale di Lucia. In seguito il fidanzato di Lucia, forse esacerbato dai continui rinvii del matrimonio, decide di denunciare al governatore Pascasio la scelta cristiana della promessa sposa, la quale, condotta al suo cospetto è sottoposta al processo e al conseguente interrogatorio. Durante l’agone della santa e vittoriosa martire di Cristo Lucia, emerge la sua dichiarata e orgogliosa professione di fede nonché il disprezzo della morte, che hanno la caratteristica di essere arricchiti sia di riflessioni dottrinarie sia di particolari sempre più cruenti, man mano che si accrescono i supplizi inflitti al fine di esorcizzare la v. e m. dalla possessione dello Spirito santo. Dopo un interrogatorio assai fitto di scambi di battute che la vergine riesce a contrabbattere con la forza e la sicurezza di chi è ispirato da Cristo, il governatore Pascasio le infligge la pena del postrìbolo proprio al fine di operare in Lucia una sorta di esorcismo inverso allontanandone lo Spirito santo. Mossa dalla forza di Cristo, la vergine Lucia reagisce con risposte provocatorie, che incitano Pascasio ad attuare subito il suo tristo proponimento. La vergine, infatti, energicamente gli dice che, dal momento che la sua mente non cederà alla concupiscenza della carne, quale che sia la violenza che potrà subire il suo corpo contro la sua volontà, ella resterà comunque casta, pura e incontaminata nello spirito e nella mente. A questo punto si assiste ad un prodigioso evento: la vergine diventa inamovibile e salda sicché, nessun tentativo riesce a trasportarla al lupanare, nemmeno i maghi appositamente convocati dallo spietato Pascasio. Esasperato da tale straordinario evento, il cruento governatore ordina che sia bruciata, eppure neanche il fuoco riesce a scalfirla e Lucia perisce per spada! Sicché, piegate le ginocchia, la vergine attende il colpo di grazia e, dopo avere profetizzato la caduta di Diocleziano e Massimiano, è decapitata.
Pare che Lucia abbia patito il martirio nel 304 sotto Diocleziano ma vi sono studiosi che propendono per altre datazioni: 303, 307 e 310. Esse sono motivate dal fatto che la profezia di Lucia contiene elementi cronologici divergenti che spesso non collimano fra loro: per la pace della chiesa tale profezia si dovrebbe riferire al primo editto di tolleranza nei riguardi del cristianesimo e quindi sarebbe da ascrivere al 311, collegabile, cioè, all’editto di Costantino del 313; l’abdicazione di Diocleziano avvenne intorno al 305; la morte di Massimiano avvenne nel 310. È, invece, accettata dalla maggioranza delle fonti la data relativa al suo dies natalis: 13 dicembre. Eppure, il Martirologio Geronimiano ricorda Lucia di Siracusa in due date differenti: il 6 febbraio e il 13 dicembre. L’ultima data ricorre in tutti i successivi testi liturgici bizantini e occidentali, tranne nel calendario mozarabico, che la celebra, invece, il 12 dicembre. Nel misterioso calendario latino del Sinai il dies natalis di Lucia cade l’8 febbraio: esso fu redatto nell’Africa settentrionale e vi è presente un antico documento della liturgia locale nel complesso autonoma sia dalla Chiesa di Costantinopoli che da quella di Roma, pur rivelando fonti comuni al calendario geronimiano.
Assai diffusa è a tutt’oggi la celebrazione del culto di Lucia quale santa patrona degli occhi. Ciò sembra suffragato anche dalla vasta rappresentazione iconografica, che, tuttavia, è assai variegata, in quanto nel corso dei secoli e nei vari luoghi si è arricchita di nuovi simboli e di varie valenze. Ma è stato sempre così? Quando nasce in effetti questo patronato e perché? Dal Medioevo si va sempre più consolidando la taumaturgia di Lucia quale santa patrona della vista e dai secc. XIV-XV si fa largo spazio un’innovazione nell’iconografia: la raffigurazione con in mano un piattino (o una coppa) dove sono riposti i suoi stessi occhi. Come si spiega questo tema? È, forse, passato dal testo orale all’iconografia? Oppure dall’iconografia all’elaborazione orale? Quale l’origine di un tale patronato? Esso è probabilmente da ricercare nella connessione etimologica e/o paretimologica di Lucia a lux, molto diffusa soprattutto in testi agiografici bizantini e del Medioevo Occidentale. Ma, quali i limiti della documentazione e quali le cause del proliferare della tradizione relativa all’iconografia di Lucia, protettrice della vista? Si può parlare di dilatazione dell’atto di lettura nell’immaginario iconografico, così come in quello letterario? E tale dilatazione nei fenomeni religiosi è un atto di devozione e fede? È pure vero che la semantica esoterica data al nome della v. e m. di Siracusa è la caratteristica che riveste, accendendola di intensa poesia, la figura e il culto di Lucia, la quale diventa, nel corso dei secoli e nei vari luoghi una promessa di luce, sia materiale che spirituale. E proprio a tale fine l’iconografia, già a partire dal sec. XIV, si fa interprete e divulgatrice di questa leggenda, raffigurando la santa con simboli specifici e al tempo stesso connotativi: gli occhi, che Lucia tiene in mano (o su un piatto o su un vassoio), che si accompagnano sovente alla palma, alla lampada (che è anche uno dei simboli evangelici più diffuso e più bello, forse derivato dall’arte sepolcrale) e, meno frequenti, anche ad altri elementi del suo martirio, come ad es. il libro, il calice, la spada, il pugnale e le fiamme. È anche vero che le immagini religiose possono essere intese sia come ritratti che come imitazione ma non bisogna dimenticare che prima dell’età moderna sono mancati riferimenti ai suoi dati fisiognomici, per cui gli artisti erano soliti ricorrere alla letteratura agiografica il cui esempio per eccellenza è proprio la Legenda Aurea di Iacopo da Varazze, che rappresenta il testo di riferimento e la fonte di gran parte dell’iconografia religiosa. In tale opera il dossier agiografico di Lucia -che si presenta come un testo di circa tre pagine di lunghezza- è preceduto da un preambolo sulle varie valenze etimologiche e semantiche relative all’accostamento Lucia/luce: Lucia è un derivato di luce esteso anche al valore simbolico via Lucis, cioè cammino di luce.
I genitori di Lucia, essendo cristiani, avrebbero scelto per la figlia un nome evocatore della luce, ispirandosi ai molti passi neotestamentari sulla luce. Tuttavia, il nome Lucia in sé non è prerogativa cristiana, ma è anche il femminile di un nome latino comune e ricorrente tra i pagani. Se poi Lucia significhi solo «luce» oppure più precisamente riguarda i «nati al sorger della luce (cioè all'alba)», rivelando nel contempo anche un dettaglio sull'ora di nascita della santa, è a tutt’oggi, un problema aperto. Forse la questione è destinata a restare insoluta? Il problema si complica se poi si lega il nome di Lucia non al giorno della nascita ma a quello della morte (=dies natalis): il 13 dicembre era, effettivamente, la giornata dell'anno percentualmente più buia. Per di più, intorno a quella data, il paganesimo romano festeggiava già una dea di nome Lucina. Queste situazioni hanno contribuito ad alimentare varie ipotesi riconducibili, tuttavia, a due filoni: da un lato quello dei sostenitori della teoria, secondo la quale tutte le festività cristiane sarebbero state istituite in luogo di preesistenti culti pagani, vorrebbero architettata in tale modo anche la festa di Lucia (come già quella di Agata). Per i non credenti tale discorso può anche essere suggestivo e accattivante, trovando terreno fertile. Da qui a trasformare la persona stessa di Lucia in personaggio immaginifico, mitologico, leggendario e non realmente esistito, inventato dalla Chiesa come calco cristiano di una preesistente divinità pagana, il passo è breve (persino più breve delle stesse già brevi e pallide ore di luce di dicembre!). Dall’altro lato quello dei credenti,secondo i quali, invece, antichi e accertati sono sia l’esistenza sia il culto di Lucia di Siracusa, che rappresenta così una persona storicamente esistita, morta nel giorno più corto dell'anno e che riflette altresì il modello femminile di una giovane donna cristiana, chiamata da Dio alla verginità, alla povertà e al martirio, che tenacemente affronta tra efferati supplizi.
Nel Breviario Romano Tridentino, riformato da papa Pio X (ed. 1914), che prima di salire al soglio pontificio era patriarca di Venezia, è menzionata la traslazione delle reliquie di Lucia alla fine della lettura agiografica, così come ha evidenziato Andreas Heinz nel suo recente contributo.
A Siracusa un’inveterata tradizione popolare vuole che, dopo avere esalato l’ultimo respiro, il corpo di Lucia sia stato devotamente tumulato nello stesso luogo dell martirio. Infatti, secondo la pia devozione dei suoi concittadini, il corpo della santa fu riposto in un arcosolio, cioè in una nicchia ad arco scavata nel tufo delle catacombe e usata come sepolcro. Fu così che le catacombe di Siracusa, che ricevettero le sacre spoglie della v. e m., presero da lei anche il nome e ben presto attorno al suo sepolcro si sviluppò una serie numerosa di altre tombe, perché tutti i cristiani volevano essere tumulati accanto all’amatissima Lucia. Ma, nell'878 Siracusa fu invasa dai Saraceni per cui i cittadini tolsero il suo corpo da lì e lo nascosero in un luogo segreto per sottrarlo alla furia degli invasori. Ma, fino a quando le reliquie di Lucia rimasero a Siracusa prima di essere doppiamente traslate (da Siracusa a Costantinopoli e da Costantinopoli a Venezia)? Fino al 718 o fino al 1039? È certo che a Venezia il suo culto era già attestato dal Kalendarium Venetum del sec. XI, nei Messali locali del sec. XV, nel Memoriale Franco e Barbaresco dell’inizio del 1500, dove era considerata festa di palazzo, cioè festività civile. Durante la crociata del 1204 i Veneziani lo trasportarono nel monastero di San Giorgio a Venezia ed elessero santa Lucia compatrona della città. In seguito le dedicarono pure una grande chiesa, dove il corpo fu conservato fino al 1863, quando questa fu demolita per la costruzione della stazione ferroviaria (che per questo si chiama Santa Lucia); il corpo fu trasferito nella chiesa dei SS. Geremia e Lucia, dove è conservato tutt’oggi.

La duplice traslazione delle reliquie di Lucia è attestata da due differenti tradizioni.

La prima tradizione risale al sec. X ed è costituita da una relazione, coeva ai fatti, che Sigeberto di Gembloux († 1112) inserì nella biografia di Teodorico, vescovo di Metz. Tale relazione tramanda che il vescovo Teodorico, giungendo in Italia insieme all’imperatore Ottone II, abbia trafugato molte reliquie di santi –fra cui anche quella della nostra Lucia- che allora erano nell’Abruzzo e precisamente a Péntima (già Corfinium). La traslazione a Metz delle reliquie di Lucia pare suffragata dagli Annali della città dell’anno 970 d.C. Ma alcuni dubbi sembrano non avere risposte attendibili: Come e perché Faroaldo ripose le reliquie o le spoglie di Lucia a Corfinium? Furono traslate le reliquie o tutto il corpo della martire? Il vescovo locale si prestò ad un inganno (pio e devoto?) o diceva il vero? Se è ravvisabile un fondo di verità nel racconto del vescovo, allora si potrebbe desumere che le reliquie o il corpo della martire furono traslate da Siracusa nel 718 (quindi fino al 718 sarebbero rimaste a Siracusa?). Cosa succedeva allora nella città siciliana? Sergio, governatore della Sicilia, si era ribellato all’imperatore Leone III l’Isaurico e pertanto era stato costretto a fuggire da Siracusa e a rifugiarsi da Romualdo II, duca longobardo di Benevento. Se questa tradizione è attendibile, si può forse pensare che il vescovo di Corfinium (o piuttosto Sigeberto? Oppure altresì la sua fonte?) abbia confuso Romualdo (che proprio in quel periodo era duca di Spoleto e che, come tale, godeva di una fama maggiore) con Faroaldo? E ancora, lo stesso Sigeberto di Gembloux riferisce che Teoderico nel 972 abbia innalzato un altare in onore di Lucia e che nel 1042 un braccio della v. e m. sia stato donato al monastero di Luitbourg. Quindi, antichi documenti attestano che di fatto vi fu una traslazione delle reliquie di Lucia dall’Italia centrale a Metz, sulla frontiera linguistica romano-germanica, nella provincia di Treviri. Situata fra Germania e Francia, questa regione è anche il paese d’origine della dinastia carolingia. È una casualità? Come andarono effettivamente le cose? Secondo Sigeberto di Gembloux l’imperatore Ottone II sostò in Italia nel 970, avendo tra la sua scorta il vescovo Teodorico di Metz, il quale, durante il suo soggiorno, acquistava preziose reliquie, allo scopo di accrescere la fama della sua città vescovile. Pare che uno dei suoi preti, di nome Wigerich, che era anche cantore nella cattedrale di Metz, abbia rinvenuto le reliquie di Lucia di Siracusa, a Corfinium, poi identificata con Péntima in Abruzzo. Si dice che tali reliquie erano state prelevate dai Longobardi e trasportate da Siracusa al ducato di Spoleto. Ma perché questo spostamento? In un primo tempo le reliquie di Lucia, dopo essere state acquistate dal vescovo Teodorico di Metz, il quale aveva portato dall’Italia anche il corpo del martire Vincenzo, furono tumulate assieme alle reliquie di quest’ultimo al quale il vescovo aveva fatto erigere un’abbazia sull’isola della Mosella, dove nel 972 uno dei due altari della chiesa dell’abbazia, fu dedicato proprio a Lucia, come patrona. Sigeberto ricorda pure che Teodorico di Metz, in presenza di due vescovi di Treviri e precisamente di Gerard di Toul e di Winofid di Verdun, abbia dedicato a Lucia un oratorio nello stesso anno. Non solo, ma tanta e tale era dunque la devozione di Teodorico di Metz per la v. e m. di Siracusa che fece tumulare il conte Everardo, suo giovane nipote, prematuramente scomparso alla tenera età di soli dieci anni, proprio innanzi all’altare di Lucia. Per tutto il tempo in cui le spoglie di Lucia rimasero nella chiesa dell’abbazia di S. Vincenzo nella Mosella, la v. e m. di Siracusa fu implorata durante i giorni delle Regazioni, con una grande processione della cittadinanza di Metz che si fermò proprio nell’abbazia di S. Vincenzo. Così Metz divenne il fulcro da cui si irradiò ben presto il culto di Lucia tanto che già nel 1042 l’imperatore Enrico III reclamò alcune reliquie della v. e m. di Siracusa per il convento nuovamente fatto erigere dalla sua famiglia nella diocesi di Speyer e precisamente a Lindeburch/Limburg.

La seconda tradizione è, invece, tramandata da Leone Marsicano e dal cronista Andrea Dandolo di Venezia. Leone Marsicano racconta che nel 1038 il corpo di Lucia, vegine e martire, fu trafugato da Giorgio Maniace e traslato a Costantinopoli in una teca d’argento. Andrea Dandolo, esponendo la conquista di Costantinopoli del 1204 da parte dei Crociati, tra i quali militava anche Enrico Dandolo, un suo illustre antenato e doge di Venezia, informa che i corpi di Lucia e Agata erano stati traslati dalla Sicilia a Costantinopoli ma che quello di Lucia fu poi nuovamente traslato da Costantinopoli a Venezia, dove pare che di fatto giunse il 18 gennaio 1205. Quindi, la traslazione delle reliquie di Lucia a Venezia da Costantinopoli sembra legata agli eventi della Quarta Crociata (quella riconducibile al periodo che va dal 1202 al 1204), quando i cavalieri dell’Occidente latino, piuttosto che liberare la Terrasanta, spogliarono la metropoli dell’Oriente cristiano. Infatti, nel 1204, in seguito alla profanazione e al saccheggio dei crociati nelle basiliche di Bisanzio, neanche la chiesa in cui riposava il corpo di Lucia fu risparmiata da questa oltraggiosa strage tanto che furono pure rimosse le sue spoglie e contese le sue reliquie, molto venerate nell’Oriente ortodosso. Pare che, proprio in tale occasione Venezia, che aveva condotto la Quarta Crociata presso il Santo Sepolcro, si impadronì delle reliquie di Lucia, che giunsero, come si diceva, sulla laguna - nella chiesa di S. Giorgio Maggiore- il 18 gennaio 1205 e cioè ancora prima della costruzione della basilica del Palladio e dell’attuale Palazzo Ducale. Il corpo di Lucia fu riposto nel monastero benedettino, dove aveva soggiornato il monaco Gerardo (o Sagredo?). Sembra che il tragico evento del 13 dicembre del 1279 (cioè una bufera scatenatasi all’improvviso, che provocò molte vittime) sia stato la causa di una nuova traslazione del corpo di Lucia dalla chiesa di S. Giorgio Maggiore a Venezia (eccetto, pare, un pollice -non un braccio, come vuole la communis opinio- che sarebbe rimasto in San Giorgio). Dopo tale tragedia, infatti, le autorità decisero di traslare il corpo di Lucia in città, ponendolo in una chiesa parrocchiale a lei intitolata e ciò allo scopo di agevolare a piedi il pellegrinaggio alle sue sacre spoglie in terraferma senza dovere ricorrere ad imbarcazioni. Quindi, nel mese seguente alla sciagura e precisamente il 18 gennaio del 1280 (lo stesso giorno della memoria dell’arrivo delle sacre spoglie di Lucia da Costantinopoli), il suo corpo fu traslato nella chiesa dedicatale, che si trovava nello stesso luogo in cui era ubicata la stazione ferroviaria che, ancora oggi ne conserva la memoria nel nome e precisamente sulle fondamenta prospicienti il Canal Grande e cioè all’inizio del sestiere di Cannareggio. Tale chiesa fu poi riedificata nel 1313 e fu assegnata dal papa Eugenio IV nel 1444 in commenda alle suore domenicane, che avevano aperto il loro convento intitolato al Corpus Domini, un cinquantennio prima sempre a Cannareggio. Nel 1476, dopo circa un trentennio di contese, si raggiunse un accordo tra le monache domenicane del convento del Corpus Domini e quelle agostiniane del monastero dell’Annunziata proprio per il possesso del corpo di Lucia: papa Sisto IV nel 1478 stabilì, con un solenne diploma, che il corpo della santa rimanesse nella chiesa a lei intestata sotto la giurisdizione delle agostiniane del monastero dell’Annunziata (che da allora prese il nome di monastero di S. Lucia), le quali ogni anno avrebbero offerto la somma di 50 ducati alle monache domenicane del convento del Corpus Domini. Nel 1579 passando per il Dominio veneto l’imperatrice Maria d’Austria, il Senato volle farle omaggio di una reliquia di s. Lucia pertanto, con l’assistenza del patriarca Giovanni Trevisan fu asportata una piccola porzione di carne dal lato sinistro del corpo della v. e m. Il 28 luglio del 1806 per decreto vicereale il monastero di Santa Lucia fu soppresso e le monache agostiniane costrette a trasferirsi al di là del Canal Grande e precisamente nel monastero di S. Andrea della Girada, dove portarono pure il corpo di Lucia. Nel 1807 il governo vicereale concesse alle agostiniane di S. Lucia di far ritorno nel loro antico convento, che, tuttavia, trovarono occupato dalle agostiniane di Santa Maria Maddalena, le quali si fusero con quelle di S. Lucia, assumendone anche il titolo. Nel 1810 Napoleone Bonaparte decretò la chiusura di tutti i monasteri e conventi, compreso quello di S. Lucia, le cui monache furono pure obbligate a deporre l’abito monastico e a rientrare nella propria famiglia di appartenenza. Il corpo di Lucia rimase nella sua chiesa, che fu così inserita nella circoscrizione della parrocchia di S. Geremia. Nel 1813 il convento di S. Lucia era donato dall’imperatore d’Austria alla b. Maddalena di Canossa, che vi abitò fino al 1846, quando iniziarono i lavori per la stazione ferroviaria e per la demolizione del convento. Fra il 1844 e il 1860 il governo austriaco realizzò la costruzione del ponte ferroviario, che doveva giungere fino alle fondamenta di Cannareggio e cioè proprio là dove da secoli allogavano i monasteri delle domenicane del Corpus Domini e delle agostiniane di Santa Lucia, poi abbattuti. Il corpo di Lucia l’11 luglio 1860 subì, quindi, una nuova traslazione nella parrocchia di S. Geremia, per volere del patriarca Angelo Ramazzotti: il sacro corpo rimase sette giorni sull’altar maggiore, poi fu posto su un altare laterale in attesa di costruire la nuova cappella. Tre anni dopo, l’11 luglio 1863, fu inauguata: essa era stata costruita con il materiale del presbiterio della demolita chiesa di S. Lucia su gusti palladiani. Per la generosità di mons. Sambo, parroco di quella Chiesa (che nel frattempo assunse la denominazione SS. Geremia e Lucia) su disegno dell’arch. Gaetano Rossi fu allestito un altare più degno in broccatello di Verona con fregi di bronzo dorato. Quindi, dal 1860 Pio IX l'avrebbe fatto trasferire nella chiesa dei Santi Geremia e Lucia, dove si venera a tutt’oggi. Qui, la cappella del corpo di santa Lucia è assai bella e artistica proprio come tutte le chiese di Venezia, adorna di marmi e di bronzi, ed è sempre stata oggetto di particolari cure ed elevata devozione di fedeli sempre più numerosi. Il sacro corpo, elevato sopra l'altare, è conservato in una elegante urna di marmi preziosi, superbamente abbellita da pregiate decorazioni e sormontata dalla stupenda statua della v. e m. Sulla parete di sfondo si leggono due iscrizioni, che raccontano le vicende della traslazione e delle principali solenni festività. Il 15 giugno del 1930 il patriarca Pietro La Fontaine lo consacrava e collocava il corpo incorrotto di Lucia nella nuova urna in marmo giallo ambrato. Nel 1955 il patriarca Angelo Roncalli -divenuto poi papa con il nome di Giovanni XXIII- volendo che fosse conferita più importanza alle sacre reliquie di Lucia, suggerì che le sacre spoglie fossero ricoperte di una maschera d’argento, curata dal parroco Aldo Da Villa. Nel 1968, per iniziativa del parroco Aldo Fiorin fu portato a compimento un completo restauro della Cappella e dell’Urna della v. e m. Ancor oggi le sacre reliquie riposano nel tempio di Venezia e nella bianca curva absidale si legge un inciso propiziatorio: Vergine di Siracusa martire di Cristo in questo tempio riposa all’Italia al mondo implori luce e pace. Ma, il 4 aprile 1867 le spoglie di Lucia furono disgraziatamente profanate dai ladri (subito arrestati), che furtivamente si erano introdotti nella chiesa di S. Geremia, per impadronirsi degli ornamenti votivi. Da allora seguirono altre profanazioni e spoliazioni: nel 1949, quando alla martire fu sottratta la corona (anche in questo caso il ladro fu arrestato) e nel 1969, quando due ladri infransero il cristallo dell’urna. Nel 1975 papa Giovanni Paolo I concesse che il corpo della martire fosse portato ed esposto alla venerazione dei fedeli nella diocesi di Pesaro per una settimana. Il 7 novembre 1981 due aggressori spezzarono l’urna della martire estraendovi il corpo e lasciandovi il capo e la maschera argentea. Anche questa volta il corpo fu recuperato proprio il 12 dicembre del 1981, giorno della vigilia della commemorazione della santa.

Esiste una variante sulla traslazione del corpo di Lucia a Venezia, documentata da un codice del Seicento, o Cronaca Veniera, conservato nella Biblioteca Marciana di Venezia (It. VII, 10 = 8607, f. 15 v.): esso sarebbe stato portato a Venezia, assieme a quello di S. Agata, nel 1026, sotto il dogado di Pietro Centranico. Non conosciamo l’origine della notizia nè se derivi da una fonte anteriore. E’ diffuso, invece, il fondato sospetto di un errore meccanico di amanuense, che avrebbe letto 1026 invece di 1206, cioè gli anni dell’effettiva translatio. E nella Cronaca Veniera lo si accettò, legando il fatto al doge dell’epoca. La presenza del corpo di Lucia a Venezia sin dal 1026 è una notizia che va accolta con prudenza? Tra il 1167 e il 1182 a Venezia esisteva già una chiesa dedicata alla martire, come attestato da documenti locali.

Una delle più antiche tradizioni veronesi racconta che le spoglie della santa siracusana passarono da Verona durante il loro viaggio verso la Germania intorno al sec. X, fatto che spiegherebbe anche la diffusione del culto della santa sia a Verona che nel nord Europa. Secondo un’altra tradizione, il culto di santa Lucia a Verona risalirebbe al periodo di dominio della Serenissima su Verona. Secondo la communis opinio, Venezia infatti, già nel 1204, avrebbe trasportato le spoglie della santa nella città lagunare.

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Attilio Citrino
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Messaggio  Attilio Citrino Mer 14 Dic - 8:59

San Giovanni della Croce

Juan de Yepes, nacque a Fontiveros, tra Salamanca e Avila, nella vecchia Castiglia, nel 1542. Il padre, Gonzalo de Yepes, era un nobile di origine toledana, diseredato dai ricchi genitori per aver voluto sposare Caterina Alvarez, orfana e povera. La famiglia nacque nella povera casetta della donna, tessitrice, dove il padre apprese l'umile mestiere della moglie per tirare avanti. Ultimo di tre figli, Juan perderà il padre, dopo lunga e penosa malattia, appena dopo due anni dalla nascita. Il piccolo venne così subito colpito dalla durezza della vita e, ancora bambino, imparò a fare il tessitore per aiutare la madre, seguendola di città in città nella ricerca di lavoro. La madre, una donna laboriosa e intraprendente, per far fronte alla fame, andò ad elemosinare dai ricchi parenti del marito, ma fu respinta. Quando il fratello più grande di Giovanni, Francesco, cominciò a lavorare, il secondogenito morì di stenti. Poveri, appena potevano, aiutavano gli altri. Un bimbo in necessità entrò a far parte della loro famiglia. Juan tentò di impegnarsi in alcune occupazioni manuali, ma con scarsi risultati; fu mandato in un collegio per orfani, studiava e, contemporaneamente, per mantenersi agli studi cui si sentiva portato, faceva l'inserviente in un ospedale a Medina del Campo. Per il suo impegno nello studio, fu ammesso al Collegio della Dottrina, dei Padri della Compagnia di Gesù, «facendovi molto progresso in poco tempo». Quando Giovanni ebbe 21 anni, tutta l'esperienza d'amore, di povertà e di intelligenza di cui s'era nutrito si concretizzò per lui nella vocazione carmelitana. Nel 1563, in un’epoca in cui la vita regolare dell’Ordine era molto rilassata, entrò nel Carmelo di Medina, prendendo il nome di fra Giovanni di San Mattia; scelse questo antico Ordine perché attratto dal suo stile contemplativo e dalla sua particolare devozione alla Vergine Maria. Dopo la professione (1564), iniziò gli studi teologici e filosofici alla splendida Università di Salamanca, presto riconosciuto come il miglior studente della scuola, per talento e serietà. Scelse per sé una cella piccola e buia, solo perché godeva di una finestrella che guardava sul presbiterio della chiesa e vi passava lunghe ore assorto nella contemplazione del tabernacolo. Alla fine del terzo anno di studi, venne ordinato sacerdote e, di ritorno a Medina per la celebrazione della prima Messa, incontrò S. Teresa di Gesù, la quale da poco aveva ottenuto dal Priore Generale Rossi il permesso per la fondazione di due conventi di Carmelitani contemplativi (poi detti Scalzi), perché fossero di aiuto alle monache da lei istituite. L'incontro avvenne mentre Giovanni, desideroso di una più totale contemplazione, stava pensando di passare tra i certosini e Teresa stava pensando a come riformare anche il Carmelo maschile. Era il 1567. Ecco come la santa di Avila raccontò quel provvidenziale incontro: «Parlandogli ne rimasi molto soddisfatta e seppi da lui che desiderava andare tra i certosini... gli dissi che se voleva migliorare avrebbe reso ancor più servizio al Signore rimanendo nel suo Ordine. Egli mi diede la sua parola di aspettare, a patto che non si tardasse molto». S.Teresa di Gesù aveva trent'anni più di lui. Anch'ella aveva sofferto tormenti interiori con la ricerca di una nuova vocazione. Ma ormai da alcuni anni si era calmata cominciando a riformare i Carmeli femminili. Stava creando dei piccoli "paradisi in terra" dove le sorelle si aiutavano reciprocamente a "vedere Dio" fin da questa terra con gli occhi limpidi della fede e col fuoco della carità.
Teresa considerava l’impresa di estendere la sua "riforma" al ramo maschile dell'Ordine molto importante perché gli uomini avrebbero potuto legare assieme la contemplazione e la missione: uniti con Dio per seguire Cristo e darlo agli altri, dove la Chiesa aveva più bisogno d'essere aiutata e sorretta.Giovanni accettò di condividere l'ideale e il destino di lei: tornò a Salamanca per completare gli studi prima di essere ordinato prete, e intanto Teresa cercò il modo di poter avere un conventino per i primi carmelitani riformati.
Fu lei stessa che tagliò e cucì per Giovanni il povero abito di lana grezza. Il 28 novembre 1568, Giovanni della Croce (questo il suo nuovo nome) si trasferì prima a Valladolid e poi a Duruelo, tra un gruppetto di case coloniche, sperduto nella campagna, dove iniziò la Riforma del Carmelo maschile, secondo lo stile di Teresa di Gesù.
Avevano adattato un vecchio edificio: il coro era nel solaio dove si poteva entrare e restare solo chinati, il portale era stato trasformato in cappella, due cellette erano agli angoli del coro, così basse che si toccava il tetto con la testa. Una cucinetta divisa a metà serviva anche per refettorio. Dovunque alle pareti c’erano croci di legno e qualche immagine di carta. Qui gli "eremiti" vivevano in una incredibile austerità. Si nutrivano di lunghe preghiere, così intense che quasi non s'accorgevano nemmeno di pregare; da lì andavano poi a predicare e a confessare presso i contadini delle borgate vicine. Quando Teresa andò per la prima volta a trovarli, si commosse. Per un certo periodo Giovanni chiamò i suoi parenti a vivere con loro: mentre i frati erano a predicare, mamma Caterina preparava il povero cibo della comunità, il fratello Francesco rassettava le camere e i letti, e sua moglie Anna lavava i panni.
Fu, in senso proprio, una nascita per il Carmelo immaginato e voluto da santa Teresa, e gli "eremiti" vi fecero un'esperienza tanto ricca e profonda quanto era necessario per sostenere per sempre la nuova vita. Giovanni dovette subito assumersi il compito di maestro dei novizi, carica che ricoprì fino al trasferimento in un luogo più idoneo ad una vita di comunità, nel 1572. Santa Teresa che era stata nominata a forza Priora di un grande monastero di suore carmelitane non riformate, lo chiamò per farsi aiutare in una vera opera di rieducazione spirituale.
Dal 1572 al 1577 fu, quindi, nominato confessore del monastero dell'Incarnazione in Avila. I due lavorarono assieme e il turbolento monastero, dove vivevano più di 130 suore, divenne pian piano quello che doveva essere: una casa di preghiera e di carità. Teresa chiamava Giovanni il suo «piccolo Seneca», scherzava amabilmente sulla sua esile figura definendolo «mezzo uomo», ma non esitava a considerarlo il padre della sua anima, affermando anche che non era possibile discorrere con lui di Dio senza vederlo rapito in estasi. Ma una parte dei frati, tra cui anche alcuni superiori non guardavano di buon occhio la riforma e considerarono i riformati degli avventurieri inquieti e disobbedienti. I cosiddetti «mitigati», definirono Santa Teresa «donna inquieta e vagabonda» e San Giovanni della Croce «religioso disobbediente, ribelle e contumace». Così il rappresentante del Generale dell'Ordine comandò che Giovanni della Croce fosse arrestato. In quel tempo i conventi avevano una cella-prigione per i frati-ribelli. Il 2 dicembre 1577 Giovanni venne «incarcerato» dai confratelli carmelitani: considerato un ribelle, fu letteralmente rinchiuso in uno stanzino angusto e maleodorante e, verso di lui, si accanirono con inusitata ferocia. Bendato e maltrattato lo portarono fino a Toledo, dove un convento possente si ergeva sulle sponde del Tago. Lo rinchiusero in un bugigattolo incavato nel muro: serviva a volte da latrina ed era quasi del tutto privo di luce. Aveva solo una feritoia larga tre dita che dava su un'altra stanza. Solo a mezzogiorno Giovanni riusciva a leggere il breviario, l'unica cosa che gli avevano lasciato.
Vi restò quasi nove mesi: tempo che ebbe un'importanza centrale e risolutiva nella sua vita. Ma fu in quelle tenebre esteriori che si accese la grande fiamma della sua poesia spirituale. «Patire e poi morire» era il suo motto preferito. Scrisse più tardi: «Una sola grazia di quelle che Dio mi fece in quel luogo non si può pagare con una piccola prigione, anche se fosse durata anni». Trattato a pane e acqua, con una sola tonaca che gli marciva addosso senza che egli la potesse mai lavare, ogni venerdì sulle spalle riceveva nel grande refettorio una flagellazione così violenta che, anni dopo, avrebbe avuto ancora delle cicatrici non rimarginate. Gli dissero che si era "riformato" soltanto per voglia di comandare e per essere considerato un santo. I pidocchi lo divoravano, la febbre lo consumava.
In una poesia di commento al salmo 137 (Super flumina), identificandosi con il popolo d'Israele prigioniero, disse di quel tempo: «Allì me hirio el amor» (là mi ferì l'amore). Ferito dall'amore di Dio, scrisse in carcere alcune poesie che resteranno tra i versi più sublimi della letteratura spagnola, certamente tra le più elevate composizioni mistiche di tutti i tempi: dieci Romanze trinitarie; il poemetto "La fonte". Lì, in quella inconsueta prigione, il suo cuore si aprì a Dio nel commento vivo al Cantico dei Cantici.
Nel profondo dell'abisso, nel buio terribile che l'avvolgeva ancora fisicamente, nel centro oscuro della notte, dal suo cuore nacquero le più calde e luminose poesie d'amore costruite con materiale biblico, ma anche secondo lo stile e le forme in uso al suo tempo.
Egli le compose a memoria e creò un mondo incredibile di immagini, simboli, sentimenti: un mondo dove la bellezza si fa grido dell'anima che cerca Cristo come la Sposa cerca il suo Sposo e si fa attrazione inesorabile di Dio che in Cristo cerca la sua creatura.
La notte, quella vera e terribile del carcere che cercò di sommergere anche l'anima del povero fraticello perseguitato, divenne la condizione ineliminabile per incamminarsi verso il mondo della rivelazione di Dio, lasciandosi alle spalle ogni cosa che potesse distrarre da questa "avventura".
Quando, dopo nove mesi, trascorsa la festa dell'Assunta, di notte, riuscì a fuggire dal carcere, rischiando di sfracellarsi sulle sponde rocciose del Tago, Giovanni si rifugiò nel monastero delle Carmelitane di Toledo, e poi in quello di Beas. Quando egli giunse nel loro parlatorio, le monache lo guardarono smarrite. "Era – dissero - come un morto, tutto pelle e ossa, e così sfinito che quasi non poteva parlare, magrissimo e di colore cadaverico”.
Dopo il carcere di Toledo gli restarono ancora solo quattordici anni di vita: ed egli li passò interamente come superiore di molti conventi, generalmente amato e stimato, anche se tenuto un po' sempre in secondo piano, ricercato soprattutto da coloro che gli chiedevano di guidarli nel cammino verso Dio. A tutti Giovanni insegnò che morire può anche significare vivere, mentre a volte si chiama vita ciò che è soltanto morire. I monasteri fondati da Teresa - e che vivevano del suo spirito e del suo stile - si protendevano naturalmente ad accogliere e desiderare la guida di Giovanni della Croce. E fu per loro che egli accettò di manifestare la straordinaria e strana sua esperienza spirituale. Poiché glielo chiedevano le persone che egli più amava, egli compì, per tutta la vita che gli restò, la fatica di riprendere la sua "parola poetica" e di tentarne una spiegazione, un commento, utilizzando tutto quello che sapeva, tutta la teologia che aveva studiato, tutte le analisi teologiche, filosofiche, psicologiche di cui era capace, nel tentativo di spiegare l'indicibile. Vennero così composti i più noti trattati ascetici, i quattro grandi commenti alle sue poesie: Salita del Monte Carmelo; Notte oscura; Cantico spirituale; Fiamma viva d'amore; lasciandone alcuni incompleti.
Come all'inizio della sua vita e come nel suo culmine, così verso la fine dei suoi giorni, Giovanni della Croce si trovò nuovamente di fronte a quel mistero di morte e risurrezione, al quale si era consacrato.
Per una serie di malevoli incomprensioni, alcuni dei suoi confratelli (questa volta non i frati che rifiutavano la "riforma", ma i suoi stessi "scalzi", quelli che egli aveva formati, che egli amava come figli, quelli di cui era così fiero che diceva che era "la più bella gente che c'era nella Chiesa"), alcuni dunque gli si rivoltarono contro.
Molti gli si strinsero attorno a difenderlo, ma i pochi che gli volevano male avevano in mano il potere, e qualcuno di essi cercò perfino di togliergli l'abito e di cacciarlo dall'Ordine.
Ma durante quei giorni penosissimi nessuno riuscì a sentire da Giovanni una critica o un'autodifesa. Dopo la vicenda di Toledo, esercitò di nuovo vari incarichi di superiore, sino a che il Vicario Generale (nel frattempo la riforma aveva ottenuto una certa autonomia) Nicola Doria fece a meno di lui nel 1591. Venne esonerato da ogni incarico di responsabilità ed «esiliato» in Andalusia, a Ubeda (Jaen), dove visse momenti terribili, di quasi totale abbandono, con tranquillità, lavorando ogni giorno con gioia e umiltà come aveva sempre fatto. A 49 anni egli si ammalò gravemente: nel collo del piede gli si aprì una piaga tumorale che non volle guarire. Sotto operazioni chirurgiche che avevano del supplizio diceva tra gli spasimi: «Non è niente, conviene che sia così». Gli offrirono di scegliersi un convento dove farsi curare, ed egli scelse l'unico in cui dominava un Priore che gli voleva male: costui gli assegnò la cella più povera e stretta, trascurò di procurargli i rimedi necessari, gli rinfacciò volentieri il misero costo delle cure, e impedì agli amici di rendergli sollievo. Il male si estese e le piaghe gli distrussero il corpo. Al medico che lo doveva ripetutamente medicare raschiando l'osso vivo, sembrò impossibile che si potesse soffrire tanto e con tanta pace.
Giovanni percepì totalmente il dolore: l'essere così strettamente unito a Dio, "trasformato in amore", non poteva né doveva togliere nulla alla sua realistica imitazione di Cristo Crocifisso.
Intanto la morte si avvicinava. Era il venerdì 13 dicembre 1591. Giovanni era convinto che sarebbe morto al sorgere del sabato, giorno dedicato alla Vergine Santa del Carmelo.
La sera prima egli si era "riconciliato" col suo Priore: con una "verità" che per noi è difficile perfino immaginare, lo fece chiamare e gli disse: "Padre, l'abito della Vergine che ho portato e del quale mi sono servito - dato che io sono povero e mendicante e non ho nulla con cui essere sepolto -, per l'amore di Dio io supplico Vostra Reverenza di darmelo per carità". Il Priore sconvolto lo benedisse ed uscì dalla cella. Poi lo videro piangere. Solo allora si ricredette e riconobbe di avere sbagliato.
Nel tardo pomeriggio si fece portare l'Eucaristia, pronunciando parole tenerissime, e prima che portassero via l'Ostia Santa, disse: "Signore, ormai non vi vedrò più con gli occhi del corpo".
La notte si avvicinava e Giovanni assicurava che egli "sarebbe andato a cantare il mattutino in cielo". Verso le undici e mezzo i religiosi del convento erano attorno al suo letto e Giovanni chiese di recitare il De profundis: egli lo intonò e i frati risposero versetto per versetto. Poi si continuò con i salmi penitenziali.
Accanto a lui era giunto il Padre provinciale, il vecchio padre Antonio, di 81 anni, col quale aveva iniziato la prima fondazione di Duruelo e costui credette di dargli conforto rammentandogli quanto aveva dovuto faticare per la Riforma dell'Ordine.
"Padre - gli disse Giovanni - non è il momento di parlarne; solo per i meriti del Sangue di Nostro Signore Gesù Cristo io spero di salvarmi". Iniziarono le preghiere per gli agonizzanti. Giovanni le interruppe. Disse: "Non ho bisogno di questo, Padre, mi legga qualcosa del Cantico dei Cantici". E mentre quei versetti d'amore risuonavano nella cella del morente, Giovanni sembrò incantato e sospirò: "Che perle preziose!". A mezzanotte suonarono le campane di mattutino e appena il morente le udì esclamò per la gioia: "Gloria a Dio, andrò a cantarlo in cielo". Poi guardò fissamente i presenti come per salutarli, baciò il crocifisso e disse in latino: "Signore, nelle tue mani affido il mio spirito".
Così, morì a Ubeda il 14 dicembre 1591, facendo sue le parole del Cantico dei cantici, in un trasporto d’amore. Aveva scritto in una sua celebre poesia: "Rompi la tela ormai al dolce incontro!". I presenti raccontarono di una luce dolce e di un intenso profumo che riempì la stanza. Giovanni della Croce aveva così compiuto la sua missione. Canonizzato da Benedetto XIII il 27 dicembre 1726, venne proclamato Dottore della Chiesa da Pio XI il 24 agosto 1926. Nel 1993 Giovanni Paolo II lo ha nominato patrono dei poeti di lingua spagnola.

Il suo magistero fu fondamentalmente orale; se scrisse, fu perché ripetutamente richiesto. Tema centrale del suo insegnamento che lo ha reso celebre fuori e dentro la chiesa cattolica è l'unione per grazia dell'uomo con Dio, per mezzo di Gesù Cristo: dal grado più umile al più sublime, in un itinerario che prevede la tappa della via purgativa, illuminativa e unitiva, altrimenti detta dei principianti, proficienti e perfetti. Cristo è «presente e operoso» sempre nella Chiesa. Per arrivare al tutto, che è Dio, occorre che l'uomo dia tutto di sé, non con spirito di schiavitù, bensì di amore. Celebri i suoi aforismi: "Nella sera della tua vita sarai esaminato sull'amore", e "dove non c'è amore, metti amore e ne ricaverai amore". "Non far cosa, né dir parola importante, tale che Cristo non farebbe e non direbbe, se si trovasse nello stato in cui sei tu, e avesse l'età e la salute che tu hai"; "Non chiedere altro che la croce, e precisamente senza consolazione, perché questo è, perfetto"; "Rinnega i tuoi desideri e troverai ciò che il tuo cuore desidera". San Giovanni della Croce non chiedeva che sofferenza e umiliazione: «Signore - pregava - non chiedo che di patire con voi. E che sia considerato nulla ». Le sofferenze che subì gli insegnarono a scoprire il mistero della croce e ad avanzare sulla strada della più alta contemplazione e della vita mistica. Come per S.Teresa d'Avila, i suoi scritti vennero raccolti in un libro col nome di "OPERE", poemi e trattati che sprigionano la sua sapienza mistica, quella che non viene dai libri e dagli studi, ma che si "sa per amore". La salita del “Monte” Carmelo, dei vertici della spiritualità ove si compie il mistero amoroso dell’unione con Dio, certo, non è una via facile. Ha i passaggi obbligati delle purificazioni e delle prove ed è attraverso la nudità e l’oscurità della fede, attraverso la dura e meravigliosa ventura della Notte oscura, che l’anima può giungere alle pure esperienze in cui svolge il dialogo con l’Amato, come la Sposa del Cantico dei Cantici, come l’Amante Amata del Cantico Spirituale. Ma allora l’anima non vuole altro che ardere dell’unione consumante della Fiamma Viva d’Amore..

Le Opere minori, Poesie, Cautele, Avvisi, Massime e le Lettere, mettono in luce una ricchissima serie di dettagli molto preziosi per la conoscenza personale del Santo ed anche per la retta interpretazione della sua dottrina.
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Messaggio  Attilio Citrino Gio 15 Dic - 10:56

M. Crocifissa di Rosa
Suo padre, Clemente Di Rosa, è un cospicuo imprenditore bresciano. La madre, Camilla Albani, appartiene alla nobiltà bergamasca, e viene a mancare quando lei, Paola Francesca, ha soltanto 11 anni. A quell’età entra nel collegio della Visitazione per gli studi, e ne esce a 17 anni. Il padre comincia a parlarle di matrimonio, ma non se ne farà nulla, perché lei vuole restare fedele al voto di castità fatto in istituto.
Niente matrimonio, dunque. Il padre la mette subito ai lavori, allora, mandandola a dirigere una sua fabbrica di filati di seta ad Acquafredda, un paese del Bresciano in riva al fiume Chiese, con una settantina di operaie. Siamo nel regno Lombardo-Veneto che, malgrado il nome, è una provincia “a statuto speciale” dell’Impero austro- ungarico, governata dall’arciduca Ranieri d’Asburgo col titolo di viceré (austriaco è pure l’arcivescovo di Milano, il cardinale Gaetano Gaysruck, spesso però in polemica con i governanti).
Così, la giovane manager col voto di castità si impegna nell’azienda di famiglia. E al tempo stesso organizza aiuti per i poveri e gli ammalati in necessità, e si dedica all’istruzione religiosa femminile, aiutata da alcune ragazze. Insieme si fanno infermiere volontarie e lavorano senza alcun riconoscimento civile o ecclesiastico. Nel 1836 la Lombardia è colpita dal colera, che fa 32 mila morti e si estende anche al Veneto e all’Emilia. Con le sue ragazze, Paola Francesca fa servizio volontario nel lazzaretto, assiste chi è malato in casa, si occupa degli orfani. Dà anche vita a due scuole per sordomuti. Nel 1840 si trova a capo di 32 ragazze con esperienza infermieristica e preparate persino all’istruzione religiosa, ma ancora senza approvazioni ufficiali, senza “personalità giuridica”. Questo è dovuto pure alla situazione politica del tempo, a qualche ostacolo locale; e il risultato è sempre uno solo: ufficialmente Paola Francesca e tutte le ragazze non esistono. Ma per i bresciani esistono, sì: loro le vedono all’opera, e soprattutto ne ammirano il coraggio nella tremenda primavera del 1849, durante le “Dieci Giornate”; ossia quando la città si ribella agli austriaci (vincitori della guerra contro il Regno di Sardegna) e subisce poi la rappresaglia ordinata dal feldmaresciallo Haynau. In mezzo alla tragedia, loro sono lì a soccorrere i feriti e a fare coraggio. E finalmente nel 1851 l’intrepida comunità ottiene la prima approvazione della Santa Sede come congregazione religiosa, col nome di Ancelle della Carità.
Nel 1852, Paola Francesca pronuncia i voti e come religiosa diventa suor Maria Crocifissa (ha voluto chiamarsi come la sua sorella maggiore, morta nel1839). Guidate da lei, le Ancelle della Carità incominciano a estendere la loro opera in Lombardia e nel Veneto, ma ormai le resta poco da vivere, anche se è ancora giovane. Si ammala nella casa delle Ancelle in Mantova, e di lì ritorna a Brescia solo per morirvi, a 42 anni. Pio XII Pacelli la proclamerà santa nel1954. Le sue spoglie sono custodite nella Casa madre di Brescia.


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Messaggio  Attilio Citrino Ven 16 Dic - 11:36

Santa ADELAIDE, IMPERATRICE
Nell'anno 947, a sedici anni Adelaide, duchessa di Borgogna, era divenuta sposa di Lotario II, re d'Italia. Ma le avvelenarono il marito per costringerla a nuove nozze col figlio del marchese Berengario d'Ivrea. Si rifugiò allora in Germania alla corte dell'Imperatore Ottone il Grande, che la scelse come sua sposa. Il matrimonio fu celebrato a Pavia nella notte di Natale del 951. Adelaide aveva vent'anni. Già la cronaca appena accennata, e pur così travagliata, ci fa intuire che doveva essere una donna dotata di molto fascino. E così la descrissero i contemporanei esaltandone la bellezza, l'eccezionale cultura e la profonda pietà religiosa. Alla morte del marito (nel 973), le fu affidata la reggenza dell'Impero. Seppe allora mostrare le sue straordinarie capacità sia in campo politico che in quello delle arti, ma soprattutto in quello religioso. Fu ammirata per l'intensa vita spirituale e per la misericordia che seppe sempre dimostrare verso i poveri e gli umili. Favorì in ogni modo la riforma benedettina cluniacense (quella che faceva riferimento all'abbazia di Cluny), fondando monasteri in Italia, Germania e Francia. Negli ultimi anni si ritirò in un monastero da lei fondato nei pressi di Strasburgo, dove morì sul finire del primo millennio (nella penultima settimana dell'anno 999). Suoi amici e confidenti spirituali erano stati sant'Adalberto di Magdeburgo e l'abate sant'Odilone di Cluny, che ne scrisse la vita. Altri santi. Vergini Martiri d'Africa (V sec.); Adone, vescovo di Vienne (ca 800-875); beato Clemente Marchisio, sacerdote e fondatore (1833-1903). Letture. «Il mio Tempio si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli» (Isaia 56,1-3.6-Cool; «Dio abbia pietà di noi e ci benedica» (Salmo 66); «Le opere che io compio testimoniano che il Padre mi ha mandato» (Giovanni 5,33-36). Ambrosiano. Ezechiele 40,1-4; 43,1-9; Salmo 28; Osea 14,2-10; Matteo 23,13-26
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Messaggio  Attilio Citrino Sab 17 Dic - 11:37

Giovanni de Matha
L'amico degli schiavi
Non dovette essere facile per Giovanni de Matha (1154-1213), docente di teologia all'università di Parigi, lasciare la cattedra per dedicarsi a riscattare i cristiani rapiti e condotti schiavi in Africa. Era diventato prete tardi, sui quarant'anni, ma già durante la celebrazione della prima Santa Messa, s'era sentito chiamato a quella inaudita missione. Ci vollero tre anni, vissuti in solitudine con quattro eremiti, per progettare la straordinaria impresa. Della sua prima esperienza di docente di teologia, mantenne solo il desiderio di dare, all'Istituto che intendeva fondare, l'impegnativo nome di Ordine della Santissima Trinità. Nacquero così i Trinitari, dall'abito bianco con croce azzurra e rossa sul petto, che cominciarono raccogliendo elemosine. Avevano deciso che tutti i proventi raccolti sarebbero stati divisi in tre parti uguali: una doveva servire al mantenimento dell'Istituto, una per pagare i riscatti e una per l'assistenza e il reinserimento sociale degli ex schiavi. La prima spedizione, approvata da papa Innocenzo III, partì per il Marocco nel 1199, dove quei nuovi frati cominciarono la loro missione visitando mercati, prigioni e cantieri di lavoro. Tornarono in patria con duecento prigionieri riscattati (ognuno con regolare registrazione presso un notaio) e sbarcarono a Marsiglia: alla loro testa c'era Giovanni de Matha che li conduceva processionalmente in Cattedrale, cantando in latino il Salmo: «Quando Israele uscì dall'Egitto...». Da quel giorno, gli schiavi liberati (soprattutto in Africa e, poi, in America latina) furono centinaia di migliaia. Un nome celebre tra tutti: Cervantes (futuro autore del «Don Chisciotte»), catturato da un pirata albanese, che i Trinitari riscattarono ad Algeri. Altri santi: San Lazzaro di Betania; Cinquanta Soldati, martirizzati dai saraceni in Palestina (VII sec.); beato Giacinto Maria Cormier, domenicano (1832-1916). Letture: «Non sarà tolto lo scettro da Giuda, finché verrà colui al quale esso appartiene» (Genesi 49,2.8-10); «Ai miseri del suo popolo Dio renderà giustizia» (Salmo 71); «Da Maria è nato Gesù, chiamato Cristo» (Mt 1,1-17). Ambrosiano: Rut 1,1-14; Salmo 9; Ester 1,1-5.10.11-12;2,1-2.15-18; Luca 1,1-17.
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Messaggio  Attilio Citrino Dom 18 Dic - 21:44

IV domenica di Avvento
Il progetto di Davide

La parola del profeta sconvolge le attese e i progetti di Davide. Natan, prima condiscendente al volere del suo re, riceve poi la rivelazione dell'autentica volontà di Dio, e la comunica con fedeltà e coraggio. A buon diritto il re dei tempi antichi può essere paragonato all'uomo moderno, sempre più padrone della sua esistenza, apparentemente libero da ogni condizionamento, capace di gestire il proprio futuro. Ma questo orizzonte di sconfinata autonomia ha bisogno di trovare un interlocutore, di aprirsi ad un dialogo, di essere indirizzato al bene. Davide è invitato dalla parola del profeta a confrontarsi con un altro progetto, a mettere in dialogo la propria libertà con quella di Dio. Può scoprire così che il suo intento di costruire una casa a Dio rischia di essere limitato e limitante: quasi un voler ridurre il Signore di Israele a strumento di potere, in vista di un tornaconto immediato. Il confronto tra la propria situazione e quella di Dio parte anch'esso da una concezione troppo mondana. "Io abito in una casa di cedro…": Davide percepisce la sproporzione tra la sua posizione e quella di Dio, ma vorrebbe, ingenuamente, pareggiarla, come se Dio avesse bisogno di una sede di rappresentanza prestigiosa. Dio invece sfonda i confini angusti del pensiero di Davide. Egli non ricerca prestigio da un edificio, né si lascia ridurre a strumento di governo. Il suo progetto va oltre, e anche Davide ne è solo una parte. Anche noi oggi, come Davide, siamo invitati a scoprire che Dio opera qualcosa che va al di là delle nostre attese, che non siamo noi che ci mettiamo per primi al suo servizio, ma lui che in Gesù entra a far parte della storia "non per essere servito, ma per servire".

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Altri Santi del giorno

Graziano, vescovo (III sec.);
Flamiano, vescovo (VII sec.);
Vunibaldo, abate (701-761).
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Messaggio  Admin Dom 18 Dic - 22:03

Me arreca gaudio magno che lo frate Attilius habet pigghjato decisionis de scribacchiare subbra lo santo de la jornata. Multi gratiae et doverosi salamelecchi de tuto lo cenobio sovra lo sacro monte; li fraticelli tutti sunt pleni de prieghi et laudationis pe lo frate vertularo.
Benedictu frata meo !

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Messaggio  Attilio Citrino Dom 18 Dic - 22:14

Admin ha scritto:Me arreca gaudio magno che lo frate Attilius habet pigghjato decisionis de scribacchiare subbra lo santo de la jornata. Multi gratiae et doverosi salamelecchi de tuto lo cenobio sovra lo sacro monte; li fraticelli tutti sunt pleni de prieghi et laudationis pe lo frate vertularo.
Benedictu frata meo !
Grazie e Benedictu puru te frate GUARDIANO
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Messaggio  Oscar Dom 18 Dic - 22:18

Anchio provo molta ammirazione per quello che scrivi qui dentro Atty.... Io non ho mai avuto una cosí perfetta conoscenza dei santi... Quelli che conosco sono pochi......... Ma tu clap clap clap
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Messaggio  Attilio Citrino Dom 18 Dic - 22:20

Oscar ha scritto:Anchio provo molta ammirazione per quello che scrivi qui dentro Atty.... Io non ho mai avuto una cosí perfetta conoscenza dei santi... Quelli che conosco sono pochi......... Ma tu clap clap clap
Grazie sora Oscar
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Messaggio  Attilio Citrino Lun 19 Dic - 22:23

Sant'Anastasio

Magundat, figlio di un sacerdote zoroastriano e soldato dell’esercito persiano, viene affascinato dalla venerazione dei cristiani per la croce. Si reca dunque a Gerusalemme e riceve il battesimo, assumendo il nome di Anastasio, “il risorto”, per indicare l’avvenuta conversione. Dopo aver praticato la vita monastica, è catturato dai persiani a Cesarea di Palestina e sottoposto a tormenti affinché abiuri.Viene infine portato in Assiria, dove è strangolato e decapitato, nella prima metà del VII secolo

Il suo capo e la sua immagine sono traslati a Roma, nel monastero detto ad Aquas Salvias,oggi chiesa intitolata ai Santi Vincenzo (martire spagnolo morto agli inizi del IV secolo) e Anastasio, nel complesso abbaziale delle Tre Fontane. Il Messale Romano del 1570 ha accomunato i due santi nella celebrazione, il 22 gennaio. Nel 787 il II Concilio di Nicea stabilisce le virtù taumaturgiche dell’immagine di Sant’Anastasio contro demoni e malattie. Il culto di Sant’Anastasio in Italia viene diffuso dal re longobardo Liutprando nel secolo VIII.

La ricorrenza di Sant’Anastasio cade in un periodo dell’anno caratterizzato da tradizioni legate al fuoco, in alcune regioni d’Italia anche San Vincenzo, martirizzato con il fuoco, viene commemorato con l’accensione di falò. In ambito locale si può notare come Acquaviva d’Isernia risulti, fino al 1064, tra i possedimenti del complesso monastico di San Vincenzo al Volturno, dove è inoltre raffigurata, in uno degli affreschi altomedioevali della cripta di Epifanio, la santa Anastasia di Sirmio, arsa viva, secondo l’agiografia, agli inizi del IV secolo.
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Messaggio  Attilio Citrino Mar 20 Dic - 12:11

Beato Vincenzo Romano Sacerdote

Nacque a Torre del Greco (Napoli) il 3 giugno 1751. Fu parroco per 33 anni (dal 1799 al 1831) dell’unica parrocchia della città di allora, la chiesa di Santa Croce oggi basilica pontificia. Studiò nel seminario diocesano di Napoli, ricevendo gli insegnamenti anche di sant’Alfonso Maria de’ Liguori. Ordinato sacerdote il 10 giugno 1775, svolse il suo apostolato per 20 anni nella natia Torre del Greco. Il 15 giugno 1794 una terribile eruzione del Vesuvio distrusse quasi completamente la città, compresa la chiesa di Santa Croce, egli subito si dedicò alla difficile opera di ricostruzione materiale e morale sia della città che della chiesa, che volle più grande e più sicura. Alla ricerca di sempre nuovi metodi per avvicinare i fedeli, introdusse a Torre la cosiddetta “sciabica”, una strategia missionaria tesa ad avvicinare con il crocifisso in mano, capannelli di personeo singoli passanti, improvvisando sul momento una predicazione, salvo poi ad accompagnarli se consenzienti alla più vicina chiesa od oratorio per pregare insieme. Spesso si fece mediatore dei contrasti sorti fra gli armatori delle «coralline» e i marinai che affrontano i rischi e la fatica della pesca del corallo. Morì il 20 dicembre 1831 ed è stato beatificato il 17 novembre 1963.
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Messaggio  Attilio Citrino Mer 21 Dic - 22:12

Oggi la Chiesa cattolica celebra Pietro Canisio, santo e dottore della Chiesa. Nato a Nimega, l’8 maggio del 1521, fu il primo gesuita a provenire dall’Olanda, allora facente parte nel Sacro Romano Impero. Figlio del Borgomastro di Nimega, cittadina del ducato di Gheldria. Ebbe modo di studiare diritto canonico a Lovaino e civile a Colonia, dove trascorrendo buona parte del suo tempo libero nel monastero dei certosini, da lui particolarmente amato, si imbatterà in uno scritto che gli cambierà per sempre la vita: il libretto degli Esercizi spirituali di Sant’Ignazio da Loyoa. Dopo la pratica compiuta presso la direzione di padre Faber, a Magonza, venne annoverato tra i seguaci di Sant’Ignazio di Loyola, nella compagnia di Gesù, il giorno del suo 22esimo compleanno. In quanto primo provinciale dell’ordine dei Gesuiti in Germania, ebbe un ruolo molto importante nella Controriforma, resasi necessaria in seguito alla riforma protestante.

Fu chiamato, in particolare, nel gennaio del 1947 su richiesta del vescovo di Augusta, il cardinale Otto Truchsess von Waldburg, a prendere parte al Concilio di Trento. Negli anni successivi, insegnò teologia presso l’Università di Ingolstadt, di cui divenne anche rettore. Da 1554 al 1555 amministrò la diocesi di Vienna, dove fu ricordato per anni per le folle che le sue orazioni radunava presso il Duomo di Santo Stefano. In quegli anni diffuse anche gli insegnamenti del concilio, specie nella Germani meridionale, invitato a compiere una tale missione da Papa Gregorio XIII e con il pieno appoggio dell’imperatore Ferdinando I. Gli veniva riconosciuta una particolare cortesia. Soleva definire le eresie e gli errori dottrinali nuove dottrine. Nel 1555 realizzò un catechismo. La Summa doctrinae christianae, ideato per ribadire l’ortodossia cattolica in risposta all’eresia luterana. Ebbe un tale successo che, quando ancora era in vita, fu ristampata 2 volte. A lui si deve la pubblicazione delle opere di San Cirillo di Alessandria, di San Leone Magno, di San Girolamo e di Osio di Cordova.
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Messaggio  Attilio Citrino Gio 22 Dic - 8:29

SANTA FRANCESCA SAVERIO CABRINI
È troppo piccolo il mondo!

Nata a Sant'Angelo Lodigiano nel 1850, Francesca sognò la vita missionaria fin da bambina. Pensava alla Cina, ma le fu affidata una missione di nuovo genere presso gli emigrati italiani in America, a favore dei quali fondò le Missionarie del Sacro Cuore. Negli anni in cui ella operò c'erano, nel continente americano, circa quattordici milioni di emigrati italiani: erano allora un popolo anonimo di "schiavi bianchi", affollati in alveari umani, costretti a vivere in condizioni di abbrutimento fisico e spesso anche morale. Vivevano senza scuole, senza ospedali, senza chiese, spessissimo anche senza lavoro. Francesca giunse a New York, con sette compagne, alla fine di marzo del 1889. Per la loro intraprendenza, generosità, carità le suore italiane si acquistarono subito non solo la stima dei loro connazionali, ma anche quella dei nativi. Lavorarono soprattutto per l'integrazione delle nuove generazioni, creando una fitta rete di scuole, di convitti, di orfanotrofi, di case di cura. Nel 1892, centenario della scoperta dell'America, Madre Cabrini realizzò per gli italiani il Columbus Hospital che, nei suoi primi trent'anni di vita, si prese cura gratuitamente di circa centocinquantamila ammalati. In trentasette anni d'attività ella realizzò, inoltre, circa 67 istituti educativi od ospedalieri (da New York a Chicago a Buenos Aires a Rio de Janeiro, oltre a decine di istituti nelle principali capitali europee) percorrendo 16.000 miglia per terra e 43.000 miglia per mare (scherzando sulle sue origini contadine, Francesca chiamava l'Atlantico, da lei attraversato ben 73 volte: "la strada dell'orto"). «È troppo piccolo il mondo» – diceva. «Vorrei abbracciarlo tutto! Non mi darò pace finché sull'Istituto non tramonti mai il sole!». Morì a Chicago nel 1917.
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Messaggio  Attilio Citrino Ven 23 Dic - 15:48

Santa Maria Margherita d'Youville

Oggi la Chiesa cattolica celebra santa Maria Margherita d'Youville, battezzata con il nome di Marie-Marguerite Dufrost de Lajemmerais. Nata il 15 ottobre del 1701, era figlia di Christophe du Frost e Marie-Renée Gaulthier de Varennes. Rimasta orfana di padre all’età di soli 7 anni, nonostante le condizioni di estrema povertà in cui rimase in seguito alla tragica scomparsa, riuscì a studiare per due anni presso le Orsoline, in Quebec grazie all’intervento del bisnonno. Dovette, tuttavia, lasciare l’istituto per potere aiutare la madre nell’educazione dei suoi cinque fratelli. Nel 1722 sposò François d'Youville, medico dedito al traffico illegale d’alcol con le popolazioni indiane con il quale non ebbe un felice matrimonio. Quattro dei suoi figli morirono in giovane età mentre il marito si ammalò gravemente. Maria Margherita lo accudì con dedizione sino alla morte, avvenuta nel 1730. Rimasta vedova, continuò ad occuparsi dei suoi figli, divenuti in seguito sacerdoti, e iniziò a mettere in piedi opere di carità.

Nel 1737 accolse in casa una cieca mentre il 31 dicembre del medesimo anno, con tre compagnie, si consacrò a Dio, impegnandosi nella cura dei diseredati. Divenne così la fondatrice, nonostante non ne avesse consapevolezza, delle Suore della Carità di Montréal. A rendere la sua attività ancor più difficile, contribuivano le ingiurie provenienti spesso dalla sua stessa famiglia e la sua salute cagionevole, un incendio dell’istituto da lei presieduto e la morte di una delle sue consorelle. Tuttavia perseverò, con incessante zelo nella cura dei più poveri, sino a quando, nel 1745, decise con le sue sorelle di mettere tutto le proprie sostanze in comune per poter aiutare quante più persone. Nel 1747 – quando ormai veniva chiamata “la madre dei poveri” – le fu affidata la direzione dell'Ospedale dei Fratelli Charon, allora fatiscente, ma che riuscì a rimettere in sesto. Quando nel 1756 un incendio devastò l’ospedale, invitò i fedeli a non scoraggiarsi, ma a riconoscere, anche nel tragico avvenimento, un segno dell’amore di Dio. Fece in tempo a farlo ricostruire, per poi morire il 23 dicembre del 1771.
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Messaggio  Attilio Citrino Sab 24 Dic - 12:45

SANTO DEL GIORNO, 24 DICEMBRE: VIGILIA DI NATALE - Oggi ricorre la Vigilia di Natale, il giorno che precede una delle due feste, assieme alla Pasqua, più importanti del cristianesimo; il tempo in esse contenuto rappresenta anche il contenuto fondamentale della Fede e uno dei dogmi fondanti la Chiesa cattolica, ovvero la Nascita, Passione, Morte e Resurrezione di Dio. Generalmente viene celebrata il 24 ma, per quelle chiese che continuano ad adottare il calendario Giuliano, per effetto dello sfasamento rispetto a quello gregoriano, viene celebrata 13 giorni dopo, ovvero il 6 gennaio dell’anno successivo. In questa giornata, il calendario cristiano contempla anche la possibilità di celebrare la memoria dei santi "antenati di Gesù". Si tratta di coloro che, pur non avendo conosciuto cristo, vivendo prima che lui nascesse, morirono egualmente nella fede, non avendo potuto gustare quei beni spirituali che si determinano con la venuta di Cristo, attendendoli «avendoli solo veduti e salutati da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sulla terra». Tra i nomi principalmente ricordati vi sono Abramo e Sara, il patriarca Giacobbe e la moglie Rachele!), Mosé, nonché i nonni di Gesù, Gioacchino ed Anna. Nella notte di oggi sarà celebrata la nascita di Gesù, partorito da Maria in una grotta di Betlemme, in Giudea, una regione della Palestina. La sua venuta al mondo determina il compimento del Nuovo Testamento nel nuovo, e la risposta all’antica promessa del Messia che avrebbe emendato l’uomo dal peccato originale. La veglia notturna di questa notte rappresenta il cammino del cristiano che si rivolge in attesa verso il Mistero della nascita di Dio che, incarnandosi, è divenuto uomo per elevare l’uomo all’altezza di Dio. In Occidente, è consuetudine partecipare, dopo la veglia, alla Messa di mezzanotte. Secondo l’anno liturgico della Chiesa cattolica, la Vigilia di Natale corrisponde anche con l’ultimo giorno di Avvento, nonché l’ultimo dei 9 giorni che costituiscono la Novena di Natale e il primo del Tempo del Natale. Quest’ultimo dura fino al giorno del Battesimo del Signore, ovvero la prima domenica in seguito l’Epifania.
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Messaggio  Attilio Citrino Lun 26 Dic - 1:33

SANTO STEFANO
La celebrazione liturgica di s. Stefano è stata da sempre fissata al 26 dicembre, subito dopo il Natale, perché nei giorni seguenti alla manifestazione del Figlio di Dio, furono posti i “comites Christi”, cioè i più vicini nel suo percorso terreno e primi a renderne testimonianza con il martirio.
Così al 26 dicembre c’è s. Stefano primo martire della cristianità, segue al 27 s. Giovanni Evangelista, il prediletto da Gesù, autore del Vangelo dell’amore, poi il 28 i ss. Innocenti, bambini uccisi da Erode con la speranza di eliminare anche il Bambino di Betlemme; secoli addietro anche la celebrazione di s. Pietro e s. Paolo apostoli, capitava nella settimana dopo il Natale, venendo poi trasferita al 29 giugno.
Del grande e veneratissimo martire s. Stefano, si ignora la provenienza, si suppone che fosse greco, in quel tempo Gerusalemme era un crocevia di tante popolazioni, con lingue, costumi e religioni diverse; il nome Stefano in greco ha il significato di “coronato”.
Si è pensato anche che fosse un ebreo educato nella cultura ellenistica; certamente fu uno dei primi giudei a diventare cristiani e che prese a seguire gli Apostoli e visto la sua cultura, saggezza e fede genuina, divenne anche il primo dei diaconi di Gerusalemme.
Gli Atti degli Apostoli, ai capitoli 6 e 7 narrano gli ultimi suoi giorni; qualche tempo dopo la Pentecoste, il numero dei discepoli andò sempre più aumentando e sorsero anche dei dissidi fra gli ebrei di lingua greca e quelli di lingua ebraica, perché secondo i primi, nell’assistenza quotidiana, le loro vedove venivano trascurate.
Allora i dodici Apostoli, riunirono i discepoli dicendo loro che non era giusto che essi disperdessero il loro tempo nel “servizio delle mense”, trascurando così la predicazione della Parola di Dio e la preghiera, pertanto questo compito doveva essere affidato ad un gruppo di sette di loro, così gli Apostoli potevano dedicarsi di più alla preghiera e al ministero.
La proposta fu accettata e vennero eletti, Stefano uomo pieno di fede e Spirito Santo, Filippo, Procoro, Nicanore, Timone, Parmenas, Nicola di Antiochia; a tutti, gli Apostoli imposero le mani; la Chiesa ha visto in questo atto l’istituzione del ministero diaconale.
Nell’espletamento di questo compito, Stefano pieno di grazie e di fortezza, compiva grandi prodigi tra il popolo, non limitandosi al lavoro amministrativo ma attivo anche nella predicazione, soprattutto fra gli ebrei della diaspora, che passavano per la città santa di Gerusalemme e che egli convertiva alla fede in Gesù crocifisso e risorto.
Nel 33 o 34 ca., gli ebrei ellenistici vedendo il gran numero di convertiti, sobillarono il popolo e accusarono Stefano di “pronunziare espressioni blasfeme contro Mosè e contro Dio”.
Gli anziani e gli scribi lo catturarono trascinandolo davanti al Sinedrio e con falsi testimoni fu accusato: “Costui non cessa di proferire parole contro questo luogo sacro e contro la legge. Lo abbiamo udito dichiarare che Gesù il Nazareno, distruggerà questo luogo e cambierà le usanze che Mosè ci ha tramandato”.
E alla domanda del Sommo Sacerdote “Le cose stanno proprio così?”, il diacono Stefano pronunziò un lungo discorso, il più lungo degli ‘Atti degli Apostoli’, in cui ripercorse la Sacra Scrittura dove si testimoniava che il Signore aveva preparato per mezzo dei patriarchi e profeti, l’avvento del Giusto, ma gli Ebrei avevano risposto sempre con durezza di cuore.
Rivolto direttamente ai sacerdoti del Sinedrio concluse: “O gente testarda e pagana nel cuore e negli orecchi, voi sempre opponete resistenza allo Spirito Santo; come i vostri padri, così anche voi. Quale dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato? Essi uccisero quelli che preannunciavano la venuta del Giusto, del quale voi ora siete divenuti traditori e uccisori; voi che avete ricevuto la Legge per mano degli angeli e non l’avete osservata”.
Mentre l’odio e il rancore dei presenti aumentava contro di lui, Stefano ispirato dallo Spirito, alzò gli occhi al cielo e disse: “Ecco, io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo, che sta alla destra di Dio”.
Fu il colmo, elevando grida altissime e turandosi gli orecchi, i presenti si scagliarono su di lui e a strattoni lo trascinarono fuori dalle mura della città e presero a lapidarlo con pietre, i loro mantelli furono deposti ai piedi di un giovane di nome Saulo (il futuro Apostolo delle Genti, s. Paolo), che assisteva all’esecuzione.
In realtà non fu un’esecuzione, in quanto il Sinedrio non aveva la facoltà di emettere condanne a morte, ma non fu in grado nemmeno di emettere una sentenza in quanto Stefano fu trascinato fuori dal furore del popolo, quindi si trattò di un linciaggio incontrollato.
Mentre il giovane diacono protomartire crollava insanguinato sotto i colpi degli sfrenati aguzzini, pregava e diceva: “Signore Gesù, accogli il mio spirito”, “Signore non imputare loro questo peccato”.
Gli Atti degli Apostoli dicono che persone pie lo seppellirono, non lasciandolo in preda alle bestie selvagge, com’era consuetudine allora; mentre nella città di Gerusalemme si scatenò una violenta persecuzione contro i cristiani, comandata da Saulo.
Tra la nascente Chiesa e la sinagoga ebraica, il distacco si fece sempre più evidente fino alla definitiva separazione; la Sinagoga si chiudeva in se stessa per difendere e portare avanti i propri valori tradizionali; la Chiesa, sempre più inserita nel mondo greco-romano, si espandeva iniziando la straordinaria opera di inculturazione del Vangelo.
Dopo la morte di Stefano, la storia delle sue reliquie entrò nella leggenda; il 3 dicembre 415 un sacerdote di nome Luciano di Kefar-Gamba, ebbe in sogno l’apparizione di un venerabile vecchio in abiti liturgici, con una lunga barba bianca e con in mano una bacchetta d’oro con la quale lo toccò chiamandolo tre volte per nome.
Gli svelò che lui e i suoi compagni erano dispiaciuti perché sepolti senza onore, che volevano essere sistemati in un luogo più decoroso e dato un culto alle loro reliquie e certamente Dio avrebbe salvato il mondo destinato alla distruzione per i troppi peccati commessi dagli uomini.
Il prete Luciano domandò chi fosse e il vecchio rispose di essere il dotto Gamaliele che istruì s. Paolo, i compagni erano il protomartire s. Stefano che lui aveva seppellito nel suo giardino, san Nicodemo suo discepolo, seppellito accanto a s. Stefano e s. Abiba suo figlio seppellito vicino a Nicodemo; anche lui si trovava seppellito nel giardino vicino ai tre santi, come da suo desiderio testamentario.
Infine indicò il luogo della sepoltura collettiva; con l’accordo del vescovo di Gerusalemme, si iniziò lo scavo con il ritrovamento delle reliquie. La notizia destò stupore nel mondo cristiano, ormai in piena affermazione, dopo la libertà di culto sancita dall’imperatore Costantino un secolo prima.
Da qui iniziò la diffusione delle reliquie di s. Stefano per il mondo conosciuto di allora, una piccola parte fu lasciata al prete Luciano, che a sua volta le regalò a vari amici, il resto fu traslato il 26 dicembre 415 nella chiesa di Sion a Gerusalemme.
Molti miracoli avvennero con il solo toccarle, addirittura con la polvere della sua tomba; poi la maggior parte delle reliquie furono razziate dai crociati nel XIII secolo, cosicché ne arrivarono effettivamente parecchie in Europa, sebbene non si sia riusciti a identificarle dai tanti falsi proliferati nel tempo, a Venezia, Costantinopoli, Napoli, Besançon, Ancona, Ravenna, ma soprattutto a Roma, dove si pensi, nel XVIII secolo si veneravano il cranio nella Basilica di S. Paolo fuori le Mura, un braccio a S. Ivo alla Sapienza, un secondo braccio a S. Luigi dei Francesi, un terzo braccio a Santa Cecilia; inoltre quasi un corpo intero nella basilica di S. Loernzo fuori le Mura.
La proliferazione delle reliquie, testimonia il grande culto tributato in tutta la cristianità al protomartire santo Stefano, già veneratissimo prima ancora del ritrovamento delle reliquie nel 415.
Chiese, basiliche e cappelle in suo onore sorsero dappertutto, solo a Roma se ne contavano una trentina, delle quali la più celebre è quella di S. Stefano Rotondo al Celio, costruita nel V secolo da papa Simplicio.
Ancora oggi in Italia vi sono ben 14 Comuni che portano il suo nome; nell’arte è stato sempre raffigurato indossando la ‘dalmatica’ la veste liturgica dei diaconi; suo attributo sono le pietre della lapidazione, per questo è invocato contro il mal di pietra, cioè i calcoli ed è il patrono dei tagliapietre e muratori.

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Messaggio  Attilio Citrino Mar 27 Dic - 11:16

San GIOVANNI EVANGELISTA
Lasciarsi educare all'amore

All'Apostolo Giovanni spetta, nel calendario, un posto vicino al Natale perché egli ci ha donato, nel suo Vangelo, la formula più intensa e più alta per descrivere il mistero dell'Incarnazione: «Il Verbo si è fatto carne / ed è venuto ad abitare in mezzo a noi». Nato a Bethsaida, sulle rive del lago di Tiberiade, Giovanni seguì dapprima Giovanni il Battista assieme al suo amico Andrea. Ma ambedue accettarono subito l'indicazione del Precursore ad andare con Gesù, l'«Agnello di Dio». Poi i due invitarono i rispettivi fratelli (Simone e Giacomo) e Gesù li scelse tutti e quattro come suoi primi discepoli. Giacomo e Giovanni, però, erano di carattere impetuoso e piuttosto violento, tanto che Gesù li chiamò 'figli del tuono'. Erano inclini a imporsi (e la loro madre li spingeva ad ambire ai primi posti) e a giudicare gli altri con durezza. «Vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi tutti?» chiesero a Gesù quel giorno in cui gli abitanti di Samaria si rifiutarono di riceverli. Ma ricevettero un severo rimprovero: «Voi non sapete di che spirito siete. Io non sono venuto a perdere gli uomini ma a salvarli». Forse fu proprio per questo - per insegnare loro la scienza dell'amore - che Gesù si tenne particolarmente vicini i due fratelli, e li volle sempre con Sé, testimoni della Sua gioia durante la Trasfigurazione e della Sua angoscia nel Getsemani. Negli ultimi capitoli del suo Vangelo - ma senza più orgoglio - Giovanni si definisce il discepolo che Gesù amava e racconta d'aver posato il capo sul petto del Maestro durante l'ultima Cena. Ebbe anche il privilegio di poter restare con Lui fin sul Calvario, testimone del Suo Cuore trafitto per nostro amore. Affinché l'educazione del discepolo all'amore potesse continuare nel tempo della Chiesa (e come indicazione per tutti i cristiani), Gesù, poco prima di morire, affidò Giovanni alla Madre sua e affidò Maria al discepolo. In seguito, nelle sue Lettere, Giovanni parlerà a lungo e ripetutamente della carità e si racconta che, negli ultimi anni di vita, egli non facesse che ripetere testardamente quest'unico insegnamento: «Amatevi gli uni gli altri, perché Dio è amore!».
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Messaggio  Attilio Citrino Mer 28 Dic - 1:09


Santi Innocenti
Festa dei Santi Innocenti martiri, i bambini che a Betlemme di Giuda furono uccisi dall’empio re Erode, perché insieme ad essi morisse il bambino Gesù che i Magi avevano adorato, onorati come martiri fin dai primi secoli e primizia di tutti coloro che avrebbero versato il loro sangue per Dio e per l’Agnello (Martirologio Romano)
I piccoli Santi Innocenti di cui oggi, come abbiamo intuito dal Vangelo, è la festa, i piccoli Santi Innocenti sono collocati, nella storia dell’anno liturgico, proprio vicino al Natale, come i più grandi testimoni di Cristo. Notiamo che essere testimoni di Cristo è ciò da cui sarà misurata la nostra vita: lo ha detto il Signore. Perché il valore della terra e del cielo, della vita nostra e della vita di tutti, il valore del singolo e di tutta l’umanità sta in questa presenza di Dio fatto uomo. I piccoli Santi Innocenti sono stati resi i testimoni più grandi insieme a santo Stefano, il primo martire, e a san Giovanni, il più grande discepolo e apostolo.? Ma sapevano questi bambini che cosa accadesse in loro, attraverso di loro? Chi avrebbe potuto pensare in quel frangente così disumano nella sua fattispecie, così contraddittorio a ogni norma del cuore, così oscuro nella sua parlata e senza luce, chi avrebbe potuto pensare, immaginare che dopo tanti secoli noi stretti insieme ci saremmo trovati uniti a invocare quei bambini, ma più profondamente a capire come in quelle piccole menti un grande mistero si adempisse?? Il valore della loro vita è grazia di un Altro. (Luigi Giussani, “La gratitudine a Dio?è la sorgente pubblica della novità”, 1978)
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Messaggio  Attilio Citrino Ven 30 Dic - 12:51

San Tommaso Becket
Oggi 29/12/2011 la Chiesa cattolica celebra San Tommaso Becket. Nato a Londra il 21 dicembre del 1118 morì a Canterbury il 29 dicembre del 1170. Lord Cancelliere, successivamente arcivescovo di Canterbury e primate di Inghilterra morì assassinato. Figlio del mercante Gilbert Becket di Thierville e Matilda di Mondeville, fin da giovane fu avviato alla carriera ecclesiastica. Divenne in breve tempo assistente dell'arcivescovo di Canterbury Teobaldo di Bec. Questi, dal canto suo ne riconobbe sin da subito i talenti, e lo avviò allo studio del diritto canonico. Da Tommaso fu accompagnato al Concilio di Reims, mentre nel 1154 fu ordinato arcidiacono della Cattedrale. Fece ben presto carriera anche nei ranghi dell’aristocrazia, tanto che re Enrico II decise di nominarlo cancelliere del Regno. Divenne la persona più fidata del sovrano, e costui si avvalse dei suoi servigi per riformare il regno in maniera da accentrare il potere nelle sue mani e limitare quello dei baroni. Poté, in particolare, servirsi della grande conoscenza che Tommaso aveva del diritto. Quando il re contribuì a farlo nominare primate d’Inghilterra a arcivescovo di Canterbury, onde evitare possibili conflitti tra chi difendeva gli interessi dell’aristocrazie ecclesiale e chi quelli di quella laica, Tommaso decise di iniziare unicamente a dedicarsi al suo ministero sacerdotale. Il conflitto, tuttavia, iniziò ad esacerbarsi a causa di una disputa sulla diversa attribuzione di poteri. Enrico II tento di convincere Becket a giurare di obbedienza ai «costumi del reame». Becket, benché ostile e dopo avere convinto svariati vescovi a passare alla sua causa, acconsentì in un primo momento di riconoscere tali consuetudini. Tuttavia, quando fu il momento di firmare il documento che le ratifica ufficialmente, rifiutò, dal momento che i 16 articoli delle Costituzioni di Clarendon avrebbe drasticamente ridotto le prerogative della chiesa d’Inghilterra. Il documento, infatti, prevedeva che gli ecclesiastici fossero sottoposti anche ai tribunali laici e che la nomina delle cariche più importanti come gli arcivescovi spettasse al re. Dopo un aspro scontro a corte, Tommaso cercò rifugio in Francia dove, in quel momento si trovava in esilio Papa Alessandro III. Passarono alcuni anni, e Tommaso ed Enrico si incontrarono in Francia, a Montmirail. Tommaso, tuttavia, non riuscì a ottenere garanzie circa la propria incolumità nel caso di un eventuale ritorno.
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