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N'incipit, nu rimannu...nu rimastu

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Messaggio  Il Ruminante Ven 12 Dic - 18:50

"Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte, d'inverno, quando i torbidi torrenti corrono al mare, e la terra sembra navigare sulle acque. I pastori stanno nelle case costruite di frasche e di fango, e dormono con gli animali. Vanno in giro coi lunghi cappucci attaccati ad una mantelletta triangolare che protegge le spalle, come si vede talvolta raffigurato qualche dio greco pellegrino e invernale. I torrenti hanno una voce assordante. [...]". C.A, il Nostro, mi rimanda, per fortuna, alla mia infanzia, alle mie estati da addolescente a Sellia. Di queste 13 novelle, della prima mè rimastu na sensaziona: si stavìa megghjiu quannu si stavìa peju.
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Messaggio  Il Ruminante Mer 17 Dic - 13:31

"...E una vita alla quale occorre essere iniziati per capirla, esserci nati per amarla, tanto è piena, come la contrada, di pietre e di spine...[]...Come al contatto dell'aria le antiche mummie si polverizzano, si polverizzò così questa vita. E' una civiltà che scompare, e su di essa non c'è da piangere, ma bisogna trarre, chi ci è nato, il maggior numero di memorie."
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Messaggio  Admin Mer 17 Dic - 22:29

"C'è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a Barbaresco o in Alba. Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c'è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch'io possa dire "Ecco cos'ero prima di nascere". Non so se vengo dalla collina o dalla valle, dai boschi o da una casa di balconi.
La ragazza che mi ha lasciato sugli scalini del duomo di Alba, magari non veniva neanche dalla campagna, magari era la figlia dei padroni di un palazzo, oppure mi ci hanno portato in un cavagno da vendemmia due povere donne da Monticello, da Neive o perché no da Cravanzana.
Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione."


La luna e i Falò - incipit

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Messaggio  OCCAM Sab 27 Dic - 16:20

"Una delle poche cose, anzi forse la sola ch'io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal. E me ne approfittavo. Ogni qual volta qualcuno de' miei amici o conoscenti dimostrava d'aver perduto il senno fino al punto di venire da me per qualche consiglio o suggerimento, mi stringevo nelle spalle, socchiudevo gli occhi e gli rispondevo:
- Io mi chiamo Mattia Pascal.
- Grazie, caro. Questo lo so.
- E ti par poco?
[...]
E dimentichiamo spesso e volentieri di essere atomi infinitesimali per rispettarci e ammirarci a vicenda, e siamo capaci di azzuffarci per un pezzettino di terra o di dolerci di certe cose, che, ove fossimo veramente compenetrati di quello che siamo, dovrebbero parerci miserie incalcolabili.
Ebbene, in grazia di questa distrazione provvidenziale, oltre che per la stranezza del mio caso, io parlerò di me, ma quanto più brevemente mi sarà possibile, dando cioè soltanto quelle notizie che stimerò necessarie.
Alcune di esse, certo, non mi faranno molto onore; ma io mi trovo ora in una condizione così eccezionale, che posso considerarmi come già fuori della vita; e dunque senza obblighi e senza scrupoli di sorta.
Cominciamo...".

-Luigi Pirandello

Una certezza, quindi una sortita...alla ricerca, attraverso l'incertezze, di conoscere veramente questa certezza. Ma, impotenti, sconfitti, si ritorna da dove si è partiti, e si rimane con l'antica e solo certezza.
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Messaggio  Il Ruminante Lun 29 Dic - 16:14

Al aparecer Augusto a la puerta de su casa extendió el brazo derecho, con la mano palma abajo y abierta, y dirigiendo los ojos al cielo quedóse un momento parado en esta actitud estatuaria y augusta. No era que tomaba posesión del mundo exterior, sino era que observaba si llovía. Y al recibir en el dorso de la mano el frescor del lento orvallo frunció el sobrecejo. Y no era tampoco que le molestase la llovizna, sino el tener que abrir el paraguas. ¡Estaba tan elegante, tan esbelto, plegado y dentro de su funda! Un paraguas cerrado es tan elegante como es feo un paraguas abierto.

Augusto apparse sull'uscio di casa sua, estese il suo braccio destro con il palmo della mano aperta verso il basso, e diresse, nel contempo, gli occhi al cielo. Per un momento stette immobile, con atteggiamento augusto e statuario. Non voleva, però, certo prendere possesso del mondo esterno, ma stava solo guardando, sincerandosene, se stesse piovendo. E allorchè sentì sul dorso della mano la frescura del lento piovigginare, accigliò il sopraciglio. A quel punto, non gli dava tanto fastidio la pioggiarellina, quanto il dover aprire l'ombrello! Era così elegante, così sottile, piegato nella sua fodera! Un ombrello chiuso è tanto elegante quanto brutto è un ombrello aperto.

(Miguel de Unamuno [1864-1936], incipit di Niebla, 1914)

Il tema qui trattato da Unamuno è universale, cioè a noi risaputo, un fiume, l'esistenza, e i suoi rivoli, come l'inadeguatezza dell'essere umano, il fatto e la finzione, ecc. Ma, quello che questo incipit mi ha fatto evocare è un tema a noi particolare e familiare, cioè a noi risaputo: Sellia. Un involontario e/o inconsapevole innesco mi sovviene e un'analogia qui si materializza: l'ombrello e Sellia. Il parallelo viaggia tra quelli che l'usano e quelli che la contemplano; tra quelli che l'amano e si sentono da essa protetti, e quelli che la denigrano pur stando sotto i suoi tetti.
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Messaggio  Admin Mar 30 Dic - 17:17

L'asino

I vari casi, la pena e la doglia
che sotto forma d'un Asin soffersi,
canterò io, pur che fortuna voglia.
Non cerco ch'Elicona altr'acqua versi,
o Febo posi l'arco e la faretra
e con la lira accompagni i miei versi;
sì perché questa grazia non s'impetra
in questi tempi, sì perch'io son certo
ch'al suon d'un raglio non bisogna cetra.
Né cerco averne prezzo, premio o merto;
e ancor non mi curo che mi morda
un detrattore, o palese o coperto;
ch'io so ben quanto gratitudo è sorda
a' preghi di ciascuno, e so ben quanto
de' beneficii un Asin si ricorda.

Niccolò Machiavelli (1469-1527)

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Messaggio  MEDUSA Mer 31 Dic - 11:37

"Nel grande edificio del palazzo di giustizia, in una pausa del processo Mel'vinskij magistrati e procuratore si radunarono nello studio di Ivan Egorovic Sebek e cominciarono a discorrere del famoso caso Krasovskij. Fedor Vasil'evic si accalorava, cercando di dimostrare il non luogo a procedere, Ivan Egorovic insisteva sul suo punto di vista, Petr Ivanovic, che si era tenuto estraneo alla discussione fin dal principio, se ne stava in disparte e sfogliava un numero del "Messaggero" appena uscito.
-Signori! -disse- Ivan Il'ic è morto.
-Possibile?
-Ecco qua, leggete,- disse Petr Ivanovic a Fedor Vasl'evic, passandogli il giornale, ancora fresco e odoroso di stampa. C'era un annuncio listato a lutto:

"Praskov'ja Fedorovna Golovina con animo affranto partecipa a parenti e amici la scomparsa dell'adorato consorte, Ivan Il'ic Golovin, consigliere di Corte d'appello, avvenuta il 4 febbraio del corrente anno, 1882. Le esequie avverranno venerd, all'una pomeridiana".

Ivan Il'ic era un collega di lavoro dei signori lì raccolti, e tutti gli volevano bene. Era ammalato gi da qualche settimana; si diceva che avesse un male incurabile. Gli avevano conservato il posto, ma correva voce che in caso di decesso Alekseev avrebbe potuto essere nominato al suo posto, mentre Vinnikov o Stabel' sarebbero subentrati al posto di Alekseev. Così, alla notizia della morte di Ivan Il'ic, il primo pensiero dei signori lì riuniti si concentrò sulle implicazioni che quella morte avrrebbe avuto su eventuali trasferimenti o promozioni che riguardavano loro stessi o i loro conoscenti..."

Lev Nikolaevič Tolstoj (1828-1910), incipit di La morte di Ivan Il'ič (1889)

Cinismo-umanitario e ipocrisìa a tutto spiano...tipico di quelle persone che allisciano piano, piano...non certo, queste, persone da altopiano.
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Messaggio  Admin Dom 4 Gen - 21:48

Sotto i portici, di notte passate le tre, il manichino nudo e senza sesso del negozio d'abbigliamento non si vergogna, come succede di giorno, se qualcuno, per caso, si ferma e lo guarda.
È una notte di marzo. Sta diluviando.
In questo momento Paolo Limara, fissando la vetrina col manichino nudo, ha appena incrociato i suoi occhi. Non l'ha fatto apposta, non avrebbe voluto, eppure è successo. Fissando le palpebre di plastica, socchiuse e spente del manichino, è successo che Limara ha visto i suoi, di occhi, persi come due monete nel, bersagliato dalla pioggia e che, proprio adesso, è stato scosso violentemente da un'auto in corsa.
Non vuole guardare, Limara, né il tombino traballante né la strada riflessa sul vetro. Preferisce star lì impalato, davanti al manichino senza sesso del negozio, che è chiuso da quattro anni, con l'insegna spenta.

Remo Bassini (1956) - Bastardo posto -

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Messaggio  MEDUSA Lun 5 Gen - 10:45

Bastardo Posto è un concentrato in miniatura della peggior Italia del recente passato e anche dei nostri giorni. L'ho letto a sprazzi, se non ricordo male, l'anno scorso...in formato kindle (non il massimo della vita...). Che cosa mi è rimasto? Molti sono i rimandi crudi, per così dire, ma a quelli ci sta sempre più abituando la cronaca quotidiana. Invece, l'apologo/immagine del giornalista Limara che, come l'asino di Buridano non sa decidersi se vivere da pecora o da leone, non è certo nuovo/a nel contesto esistenziale, anzi ne rappresenta un naturale paradigma dello scenario dell'uomo post-moderno che "Non vuole guardare...né il tombino traballante né la strada riflessa sul vetro. Preferisce star lì impalato...".
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Messaggio  SelliaLaSuperba Sab 10 Gen - 18:26


“I GIORNI PERDUTI"

Qualche giorno dopo aver preso possesso della sontuosa villa, Ernst Kazirra, rincasando, avvistò da lontano un uomo che con una cassa sulle spalle usciva da una porticina secondaria del muro di cinta, e caricava la cassa su di un camion. Non fece in tempo a raggiungerlo prima che fosse partito. Allora lo inseguì in auto. E il camion fece una lunga strada, fino all’estrema periferia della città, fermandosi sul cigli o di un vallone. Kazirra scese dall’auto e andò a vedere. Lo sconosciuto scaricò la cassa dal camion e, fatti pochi passi, la scaraventò nel botro [fossato]; che era ingombro di migliaia e migliaia di altre casse uguali. Si avvicinò all’uomo e gli chiese:
«Ti ho visto portar fuori quella cassa dal mio parco. Cosa c’era dentro? E cosa sono tutte queste casse?».
Quello lo guardò e sorrise:
«Ne ho ancora sul camion da buttare. Non sai? Sono i giorni».
«Che giorni?»
«I giorni tuoi.»
«I miei giorni?»
«I tuoi giorni perduti. I giorni che hai perso. Li aspettavi, vero? Sono venuti.Che ne hai fatto? Guardali, intatti, ancora gonfi. E adesso...»
Kazirra guardò. Formavano un mucchio immenso. Scese giù per la scarpata e ne aprì uno. C’era dentro una strada d’autunno, e in fondo Graziella la sua fidanzata che se n’andava per sempre. E lui neppure la chiamava. Ne aprì un secondo. C’era una camera d’ospedale, e sul letto suo fratello Giosuè che stava male e lo aspettava. Ma lui era in giro per affari. Ne aprì un terzo. Al cancelletto della vecchia misera casa stava Duk il fedele mastino che lo attendeva da due anni, ridotto pelle e ossa. E lui non si sognava di tornare. Si sentì prendere da una certa cosa qui, alla bocca dello stomaco. Lo scaricatore stava diritto sul ciglio del vallone, immobile come un giustiziere.
«Signore!» gridò Kazirra. «Mi ascolti. Lasci che mi porti via almeno questi tre giorni. La supplico. Almeno questi tre. Io sono ricco. Le darò tutto quello che vuole.»
Lo scaricatore fece un gesto con la destra, come per indicare un punto irraggiungibile, come per dire che era troppo tardi e che nessun rimedio era più possibile. Poi svanì nell’aria, e all’istante scomparve anche il gigantesco cumulo delle casse misteriose. E l’ombra della notte scendeva.

da Dino Buzzati, 180 racconti, Mondadori, Milano 1982

Che cosa ti lascia un racconto del genere...ti lascia l'amaro in bocca; ma potrebbe essere un'amarezza dal futuro più dolce, basta non solo leggere, riflettere, ma anche passare ai fatti.
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Messaggio  Admin Sab 10 Gen - 22:30

Primo Levi (1919-1987)

Se non ora, quando?

- Al mio paese, di orologi ce n'erano pochi. Ce n'era uno sul campanile, ma era fermo da non so quanti anni, forse fin dalla rivoluzione: io non l'ho mai visto camminare, e mio padre diceva che neanche lui. Non aveva orologio neppure il campanaro.
- Allora come faceva a suonare le campane all'ora giusta?
- Sentiva l'ora alla radio, e si regolava col sole e con la luna. Del resto non suonava tutte le ore, ma solo quelle importanti. Due anni prima che scoppiasse la guerra si era rotta la corda della campana: si era strappata in alto, la scaletta era fradicia, il campanaro era vecchio e aveva paura di arrampicarsi fin lassù per mettere una corda nuova. Da allora in poi ha segnato le ore sparando in aria col fucile da caccia: uno, due, tre, quattro spari. È andato avanti così finché non son venuti i tedeschi; il fucile glielo hanno preso, e il paese è rimasto senza ore.

Primo Levi

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