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"Calabritudine" - Parole ed Immagini

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Messaggio  Admin Lun 1 Ott - 15:38

Calabritudine: un neologismo, una parola inventata ieri che, tramite parole ed immagini, cerca di descrivere delle caratteristiche che per alcuni sono ancora presenti, mentre altri li sentiranno affiorare negli angoli della propria mente.
Per altri, se non altro, certamente solo per il gusto di leggere ed osservare.

"Calabritudine" - Parole ed Immagini Narr1"Calabritudine" - Parole ed Immagini Narr2-1

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Messaggio  Admin Lun 1 Ott - 15:42

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Foto- Giuseppe Torcasio

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Messaggio  Admin Lun 8 Ott - 15:27

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Messaggio  Admin Lun 8 Ott - 15:35




Foto Aldo Bressi

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Messaggio  Admin Gio 1 Nov - 21:07

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Foto Aldo Bressi

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Messaggio  Admin Sab 12 Gen - 20:26

"Calabritudine" - Parole ed Immagini 1a1aaa1cas



Nessuno fece in tempo a dire addio


La vita ci rubò al sogno con tale rapidità da lasciarci senza fiato.

Ma quali sogni potevamo noi covare dentro cuori adolescenti in un angolo di mondo perduto, lontano dai fermenti dei mitici "anni 60"?

Sordo ad ogni eco: era un mondo rattrappito, incapace di srotolarsi e le sue potenzialità castrate. Non facemmo in tempo a definire i contorni della nostra identità, tesi com'eravamo a disegnare un futuro fatalmente lontano da quei luoghi.

Eppure i sogni li avevamo. Anzi, dentro di noi, in quei miseri borghi, sotto l'aridità di quella terra, c'era qualcosa in più del sogno dei tempi.

Quell'identità che ci pareva imprendibile e i cui contorni sfumavano nella noia, in realtà ci avvolgeva vischiosa, pesava su noi come peccato originale: l'identità di chi non può morire dove nasce. Il nostro esistere, la nostra natura, il sogno di noi stessi erano caduchi. Noi avevamo il diritto di coltivare i fiori del giardino. Il nostro patrimonio sarebbe stato devastato, la nostra anima calpestata, i nostri sogni spezzati, i pensieri divelti e poi svuotati. Tutto ciò nel disegno mostruoso di un'omologazione assoluta ai valori della civiltà del consumo. Saremmo diventati numeri, i nostri ingenui sospiri di giustizia, i nostri fragili progetti di cambiare il mondo iniziando dal nostro mondo, facilmente soffocati, fatti a pezzi come noi stessi scagliati ovunque: schegge.

Dispersi, persi ad ogni speranza di ricomposizione siamo oggi prese del conformismo imperante al punto che, a volte, in un impeto irrazionale di povero orgoglio nell'affermazione di un "io sono" già ambiguo e deformante guardiamo al Sud come se ci fosse alieno e remoto, in un goffo tentativo d'identificazione con la cultura egemone e i suoi voraci mentitori.

È la notte di Natale! Questi pensieri mi fioccano in testa come il gelo, come questa neve chi si posa e si disintegra senza rumore sulle fiamme che mi stanno davanti. Natale: il mito eterno del ritorno.

Ma sono rivolgimento repentino nella coscienza e nello spazio il vociare allegro e il calpestìo tambureggiante dei ragazzini che dai vicoli spioventi del paese fluiscono come ruscelli disordinati nella piazza, dove pulsa lo smisurato cuore della "focara".

Intorno al grande fuoco uomini muti e bui, meditabondi come se parlare fosse sacrilegio. Anche il nostro gruppo tace, vinto da un'aria grave ed arcana: un silenzio quasi religioso. Ed ecco leste le prime donne che vanno in chiesa, coperte da neri, pesanti scialli e con la testa china sfidano il freddo e l'ora. Qualche madre tenta invano d'agguantare il proprio figlio per sottrarlo alla rigida notte e condurlo al tepore della S.S. Messa, ma i bimbi felini sgusciano via. Piano piano la disordinata processione s'infittisce: in fila indiana dalle nere, impenetrabili ombre dei vicoli, spuntano, silenziose e minuscole, figure curve che il tempo e gli addii hanno modellato. Esse prendono vita stremate sotto la sfocata luce di lampadine esauste e alzano il capo al chiarore delle fiamme. Non v'è un uomo che varchi il sacro portale: "cose di chiesa cose di donne"!

Così attorno al fuoco qualcuno comincia a parlare. Un vecchio con una piega sulle labbra ed incurvato come se portasse pesi antichi accenna racconti di altre età, epoche che paion perdute come chimere, forse non toppo lontane: molte cose sono mutate, molte sono rimaste eguali a se stesse. Ascoltiamo fingendo indifferenti, indolenti, ma sottilmente la magia delle parole e delle fiamme ci consuma e i nostri pensieri rimossi prorompono nella coscienza.

Ripenso ai primi brucianti perché che mi piovvero dentro quando, quasi bambino, sentìi parlare alcuni vecchi stranamente vestiti e le loro parole avevano un suono curioso che mi innervosiva. Dicevamo: "...mherica". come era grande, come era bella. La gente con lo zappone sulle spalle e i pantaloni rattoppati, a bocca spalancata inseguiva con gli occhi rossi per la terra nelle ciglia sogni proibiti sui visi stanchi di quegli uomini senza capire, senza poter capire. Anch'io mi chiedevo cosa fosse "mherica", dove fosse, perché fosse. Mi chiesi mille cose senza capire, senza poter capire, le chiesi a "loro" e non me le spiegarono. I loro goffi e gonfi trasudavano amarezza e non lo capivano, delusione e lo negavano, erano tristi e li sforzavano di sorridere. Perché? Di notte mi tornava il tarlo e pensavo, ideavo città colorate, genti felici, eldoradi lontani, come per scacciare un incubo incombente.

Poi ad uno ad uno vidi partire i miei compagni e con la loro una parte di me si staccava dalla terra, si spezzava secca. Ma in questo loro andare cresceva in me testarda voglia di restare. E mentre la malinconia mi rode come una peste, come un uragano mi sommergono le risate degli amici. Ed è un susseguirsi di celie, mentre la notte si' irrobustisce e con essa più pungente si fa il freddo.

Gli ultimi anziani, raggomitolandosi, prendendo la via di casa, i bambini stendono le sciarpe sulle guance, tenuti ancor sù solo dai miseri cappottini, ma i loro occhi, rossi e vinti come una stanca utopia, si chiudono e si adagiano sui gradini gelati della chiesa: da lì li riprenderanno le madri dopo il "deo gratias".

D'un tratto ci accorgiamo di essere soli, soli e muti. Si vorrebbe parlare, ma mentre il calore del fuoco si attacca ai nostri petti e ci brucia la faccia, le spalle s'irrigidiscono per il freddo, come le parole incapaci di sciogliersi sulle labbra. La voce di un ubriaco, la voce singhiozzante d'un ubriaco, recita lontano una triste romanza alla bella morettina e torna l'allegria e il gelo pare svanire. Ma l'ubriaco passa: testa in giù e non ci vede, è già lontani, aggrappato a chissà quale muro, a chissà quale ricordo. E noi qui. Ci guardiamo e quasi senza parlare decidiamo di fare una corsa per le vie del paese come a ripopolare la nostra mente coi sogni di un tempo, quando bambini esploravamo ogni angolo, ogni anfratto del disadorno borgo. Ma dopo un pò ansimanti facciamo ritorno al fuoco, unica cosa viva. Qualcuno, come d'improvviso illuminato da quelle vampe, insinua nei ritagli dei nostri pesanti pensieri la pulce della fame. E si progetta l'assalto al pollaio del postino o alle conigliere di "Ndringhiti", ma lui è lì con noi ed emette un gridolino. Ridiamo.

Ma la libidine della gola ce l'abbiamo ormai dentro. e così ricordiamo che questo è il tempo dei maiali scannati: ognuno di noi si adopera per un pezzo di carne di morbida, umida salsiccia. E siamo tutti cuochi. L'odore intenso della carne sulle braci di sale lungo il corpo e ci sopravanza fin verso il buio cielo. Ora nevica e i morsi del freddo ci costringono a stare vicini e ci accorgiamo solo adesso che assieme al nostro gruppo ci sono altri visi, giovani e meno giovani, allegri e sorridenti.

E noi, contaminati dall'euforia e scaldati dal vino ci perdiamo in racconti dell'adolescenza, della nostra prima giovinezza, dell'esuberanza, del ribellismo frenetico, dell'inquietudine e dell'incapacità di accettare le regole del mondo che ci stava intorno e ci stringeva. Ed ecco storie di disperata noia, di bagni nel gelido Corace, nudi e infreddoliti, di spesso crudeli: ogni cosa; ogni piccola cosa ci bastava. Ma solo oggi capisco come fossero amare, dannatamente amare, le nostre burle al passaggio degli ubriachi e gli inevitabili sberleffi, le ironie.

Nelle interminabili sere d'inverno, nel buio angusto delle vie, scorrazzavamo divertiti e sanguigni, e quando dagli ingialliti vetri di finestre mal illuminate si scorgevano nella penombra profili di vecchi al focolare, stanchi con la testa persa tra le mani, schiacciati sulle sedie, piombava come catapulta sui fragili portoni un sasso scagliato con rabbia cieca e ci nascondevano ilari dietro gli angolo delle case per assaporare l'impotenza dolorosa di quei poveri vecchi a volte il loro pianto le parole tremanti, gonfie di tristezza ed ira che ci correvano dietro per tutta la notte, fin dentro il cuscino, ronzano ancora nella mia mente e i loro gesti poveramente minacciosi si celano sotto le mie palpebre. Forse era un sasso scagliato con rabbia cieca contro quel mondo per cancellarlo, ma oggi so a chi era diretto.

Comunque la crudeltà di quegli atti ci lasciava un inconfessato e profondo senso di colpa. Ma potevamo noi, in quelle sere, giacere come spiriti morti, sprofondare nel tedio? Dovevamo inventare qualcosa per esser sicuri d'esser vivi. Trovammo la soluzione. Con dieci lire compravamo una fialetta di benzina con cui bagnavamo i gradini dell'uscio delle nostre "vittime" e davamo fuoco, poi bussavamo sicuri di provocare situazioni strane o curiose. I primi esperimenti, infatti, furono gratificanti e spesso ci divertirono. A lungo andare, però, la "vis comica" s’infiacchì: un vecchietto che viveva da solo che ormai ci conosceva bene ci sorprese e ci smontò: apri la porta e con naturalezza, alla vista della fiammella, si scaldò le mani facendosi una grassa risata e rientrò richiudendo con ironici colpi di tosse. Ma la parola fine la scrivemmo a quel gioco quando arrostimmo la porta di mio zio.

Quanto tempo passavamo a parlare, parlare e parlare. A notte fonda per le strade c' eravamo soli solo noi e non volevamo andar via, le parole erano la nostra droga. Ci angosciava pensare di dover metterci a letto, ci prendeva come una febbre il male dell'esistenza, l'impotenza ci possedeva, vibravano le cellule del corpo ma ci vinceva la nausea di essere inutili a noi stessi e al mondo, volevamo ribaltare l'intero universo e non potevamo che "parlare". Sdraiati al sole, sopra le cocenti pietre agli argini del Corace, fumando "nazionali" costruivamo incoscienti un mondo diverso; tormentati dalle bufere di neve, incollati ai portoni di case cadenti fumando nazionali, costruivamo incoscienti mondi sempre uguali. Il tempo passava.

Non siamo più noi, o forse adesso solo adesso siamo davvero noi i dubbi, le paure, le incertezze. Dopo le scuole medie superiori iniziò il lento ed inesorabile esodo. La prima volta che ci ritrovammo era pure natale, ma come eravamo diversi da oggi! Energici, squillanti e freschi ci raccontavamo le esperienze, le espressioni su ciò che avevamo visto o vissuto a Roma, Torino, Milano o pisa. Sembrava che finalmente avessimo il mondo nelle nani. Ci sentivamo grandi ma incominciavamo solo a crescere, a misurarci con un mondo di cui avevamo immaginato solo l'esistenza, tra mille pregiudizi e complessi, e non capivamo, non potevamo capire che iniziava la fine della nostra identità e la sovversione dei nostri sogni. Mai più saremo andati al fiume, mai più avremo ritrovato i nostri sogni, avremo avuto altra droga che le parole. Non saremo stati mai più figli della nostra terra e non saremo mai divenuti altro.

Quella gente cosi formale, cosi diversa, cosi sicura di sè ci affascinava. Come era lontano il nostro piccolo mondo con le sue balbuzie, con i suoi timori e la sua povera gente. Lì erano gli uomini che dominavano la vita, da noi era la vita che ci passava addosso. Una contaminazione sottile ma costante ci allontanava dalle nostre radici e non ci avvicinava a nulla. Eravamo troppo immersi nella nostra cultura per poter assorbire tutto il nuovo, ma avevamo troppa voglia di libertà per rimanere ancorati ad un mondo immobile. E siamo uomini nuovi con una cultura vecchia o uomini vecchi con uno spirito nuovo.

Con i primi amori nati fuori dalle nostre menti abituate al sogno s'insinuava pian piano il senso nuovo dell'avventura, della materialità, dei nostri cuori si piantava il seme del piacere gratuito. Le grandi città disperdevano in mille rivoli l'impeto dei sentimenti cresciuto all'ombra di amori esclusivi e " stilnovicamente" sofferti, vissuti nel silenzio e nella solitudine. Ma le idee confuse e approssimative, disorganiche, che avevamo allora sui meccanismi sociali furono chiarite. I primi grandi movimenti di massa che vidi all'alba degli anni '70 mi sconvolsero. Ma la mia diffidenza, che mi trascinavo ancora addosso quale retaggio di un mondo chiuso e muto, mi spinse a guardare con distacco a quegli enormi cortei che percorrevano Roma. Solo quando capiì le parole dei loro urli, così simili a quelle che io custodivo in seno, riconobbi mia la loro rabbia.

Educato a credere da anni di silenzi e tedio, da schiene curve ed umiliazioni quotidiane che la morte vissuta ogni giorno a Castagna non fosse altro che l'epilogo fatale di colpe antiche, castigo divino, mi s'inondò il corpo di sudore quando compresi la verità.

Eppure questa lucida coscienza si appanna ogni giorno che passa con l'impassibilità di stringerci tutti insieme: dispersi, persi ad ogni speranza di ricomposizione. Alla sera per le strade di Castagna ci sono oggi altri ragazzi, altre droghe...

La notte è alla fine: m'accompagna fino a casa il gelido chiarore dell'aurora sull'uscio e vomito rabbia e vino sulle compatte trame della neve, già screziata dalle timide ombre del mattino, ma dura e fredda come un sepolcro.

- Salvatore Piccoli -

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Messaggio  cuvalo54 Sab 12 Gen - 23:53

Chiaramente un'artigiano non poteva che pensare alla vendemmia
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Messaggio  Admin Dom 3 Feb - 20:16

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Fanciulla di Caraffa

LA DONNA

costumi e credenze calabresi

Una donna di Calabria vale quanto l'uomo d'ogni altro paese: i fianchi vigorosi, gli occhi arditi, i polsi robusti, le gote floride, la ricca capigliatura, e l'accento minaccioso la dicono nata nel paese dei terremoti e dei vini forti. Vive sulle montagne? gonna di colore vermiglio, come i gruppi dei lampi che saltellano per le montagne. Vive pressoil mare? gonna azzurra come gli olivi, sotto cui mena la vita. Maneggia la conocchia ed il fucile, la spola e la scure, ed il suo sguardo è infallibile come il suo fucile. Ti fissa sopra lo sguardo? Ti raddoppia la vita. Ti fissa sopra il fucile? Te la toglie. Nondimeno, la donna fu considerata ovunque come un essere decaduto, e tale si stima pure in Calabria. Il pastore che caglia il latte, deve avvolgere il presame in un pezzo ditela appartenente ad uomo e non a donna; altrimenti è sicuro che il latte non cagli. Laparte inferiore della camicia della donna si dice musto: coifili di questo musto se si fa un lucignolo per la lucerna, il lucignolo non arderà. Ma se la donna è zitella, l'opinione sul conto suo è tutt'altra. Il tocco delle dita di lei si crede portentoso, profetica la parola, ispirato lo sguardo. La zitella fabbrica il pane? Esso le cresce nellemani, ed anche senza lievito riuscirà gonfio, alluminato e spugnoso piú del pane fermentato. La famiglia compra un bicchiere, una bottiglia, un orciuolo? Perché acquistino buono odore, la prima a porvi su le labbra deve essere la zitella. Vanno le donne a raccorre i covoni e spigolare? Se nel campo vi è uno stelo a doppia spiga, colei che lo trova è certamente zitella. Avete un'infiammazione negli occhi? L'unico farmaco che può guarirvi è la saliva della zitella. Ella riceve il piú delicato rispetto nella famiglia, e la donna piú corrotta e l'uomo piú dissoluto non osano in Calabria profferire una parola meno che onesta innanzi a lei. Quanto son belli e poetici i seguenti proverbii, e quant'altezza di sentire manifestano in Calabria!
La zitella è santa come un altare. L'uomo che gitta un cattivo pensiero nell'anima di una zitella è simile al Demonio che versò il male nel paradiso terrestre. Tre sole cose hanno fragranza in questo mondo, il fiato del fanciullo, della zitella e del vitellino lattante.
Fino ai sette anni i due sessi vivono confusi: comune il salto, la lotta, il gioco, la colezione, ed il maestro; ed in quell'età si gettano i semi d'un'amicizia innocente, che in seguito germogliando sarà amore. Sii mia comare, dice il ragazzo alla ragazza; e quella si svelle un capello, ne mette un capo in mano al piccolo maschio, ed ambedue tirano e quindi lo spezzano. Sii mio compare, dice la ragazza al ragazzo; e il ragazzo piglia un piccolo ciottolo; egli vi sputa, ella vi sputa, il ciottolo si lancia piú lungi che si può, e la nostra amicizia, gridano entrambi, cessi quando si troverà quel ciottolo. Facciamoci compari, dicono il ragazzo e la ragazza, ed entrambi o vestono a guisa di bambino un fascio di puleggio e lo battezzano; o nel giorno di S. Giovanni simandano un regalo di fiori, che si dice ramaglietto, parola cugina all'altra di ramaglia, che in Arezzo vale ripoliture degli alberi. Di qui nascono l'espressioni compare di capello, compare di pietra, compare di bambino e compare di ramaglietto; e quando si dice ad una donna: Tu sei bella come un ramaglietto, non si ha altro che aggiungere. Questi costumi sono poesie, sono simboli, sono metafore in atto; e trovansi presso tutti i popoli primitivi, non ancora corrotti, non ancora divenuti prosa. Compiuti i sette anni, una barriera di bronzo si mette tra i ragazzi e le ragazze: gli uni lottano coi lupi, l'altre cantarellano come la Circe di Omero, intente all'opra della spola; gli uni diventano arditi come il diavolo, mettono il diavolo dopo ogni terza parola; l'altre pigliano un'aria amazonica, e contegnosa. Ma ecco suonano i quindici anni. Rivoluzione; i due sessi cercano di rompere la barriera di bronzo. Attente, o madri! Fratelli, caricate gli schioppi. Potrò io descrivere l'amore di Calabria? I ruggiti dei leoni, il combattimento dei tauri quando vanno in caldo sono immagini troppo sbiadite delle tempeste che scoppiano nel petto irsuto dei giovani calabresi. La vigilanza dei genitori, il punto di onore e la gelosia feroce dei fratelli offrono alla donna occasioni di vedere l'amante, pochissime e divise da lunghi e penosi intervalli. Se dopo un anno di amore, e di notti vegliate l'uomo giunge a toccare il mignolo dell'amata, può dire di aver fatto assai. O stornellatori, canori come l'anitre, che tuffati nell'acqua cantate la barcarola, udite alcuni brani delle canzoni, che il contadino calabrese canta sotto le finestre della sua bella. «Le tue bellezze sono tre montagne d'oro, e le tue braccia due candelabri di argento. Vorrei morire schiacciato sotto quelle tre montagne, vorrei essere la candela di quei due candelabri, e consumarmi. Se tua madre mi dicesse: Io ti darò mia figlia a patto che senza posarti un momento te la rechi in braccio per dodici montagne, mi sentirei la forza di portarti, anima mia, sino a Roma, di camminare senza chiudere occhio per un mese. Se lungo il viaggio il lupo affamato mi assalisse, io gli direi: Compar lupo, squarciami come ti pare, ché io per respingerti non deporrò mai dallebraccia il dolce peso che porto».
«Io per te stendo il passo, e per te lo ritiro; per te cammino di notte. Vo' innanzi alla tua casa: la strada è piena, tu non ci sei, e la strada mi sembra vuota. O belle fanciulle, che filate al Sole, ov'è la vostra compagna? — Ella dimora, o giovine brunetto, sotto quella parte di cielo, dove non è nube. — Come campo pieno di pecore nere, il cielo era coperto di nuvole nere: un solo punto vi era azzurro e sereno come la tua pupilla quando guarda la mia; e sotto quel punto sulla terra era la chiesa, e nella chiesa eri tu».
«O rosa vermiglia, io fui il primo ad amarti. Ti amai fin da quando tu pendevi dalla mammella di tua madre. Un'ora, che non ti veggo, mi pare un anno; un anno, a stare con te, mi parrebbe un sol giorno. So bene ove il tuo occhio sta fisso, ma io non patirò mai di vederti in braccio di altro amante. Tu fuggi innanzi a me piú rapida d'una pernice coi tuoi piedini rossi, ma io ti abbrancherò pure una volta, e gettandoti un laccio al collo ti chiuderò in una gabbia di argento con chiodi d'oro».
«Perché bassi gli occhi al vedermi? Se mai ti offesi, dimmelo, ed io con le mie mani istesse ti porterò, affinché tu mi uccida, un coltello. Tu sei un garofalo, ed il mio sangue servirà ad inaffiarti. Altri ti ama, altri canta sotto le tue finestre. Dovrò patirlo? O uccido, o sarò ucciso. La cosa piú dolce è morire scannato innanzi alla porta dell'amante, e lasciarle il proprio sangue sulla soglia. Fresco è il tuo bacio, e fresco com'esso sentirò il coltello, se m'entrerà nel core per amor tuo. O mia fanciulla, tu sentirai a mezzanotte grida e bestemmie, e voci di gente che diranno: Buoni cristiani, aprite le finestre, e sporgete le lucerne; ché qui è un uomo ferito. — E all'alba tu vedrai il sangue sulla strada, a mezzogiorno la croce, a vespro i preti, e dietro i preti il mio cataletto».
«Ell'era dalla finestra con sua sorella, e mangiavasi una pera, ed io mi fermai a guardarle. Gentil brunetto, mi disse, chi di noi guardi tu? — Guardo la piú bella di voi due, e l'ammiccai con l'occhio sinistro. Allora mi lanciò la pera, che aveva in bocca, pera rubiconda come le sue gengive, e che serbava l'impronta dei suoi denti; e la pera dalla sua bocca passò nelle mie mani, e il cuore dal mio petto passò nella sua bocca. Mangiati, o donna, il mio cuore, ché io mi mangerò la pera tua». Dopo aver cosí cantato parecchi mesi sotto le finestre della donna, il giovine deve infine domandarla alla famiglia di lei, e dichiarare la sua intenzione. In molti paesi la dimanda di matrimonio si fa in modo simbolico: l'uomo colloca di notte innanzi all'uscio della ragazza un grosso ceppo, a cui fa con la scure uno spacco, e mette nello spacco una bietta. Se la madre della fanciulla si tira al mattino quel ceppo nella casa, dà segno di aver accettato il partito, e la fanciulla dicesi acceppata. Ma comunemente l'uomo la domanda mercé del padre, o d'altro stretto congiunto; e se la dimanda è gradita, egli può continuare a cantar come prima, ma non mettere però piede nella casa della fanciulla. Per giungere a tanto è mestieri che il notaro l'accompagni. L'onore calabrese è delicatissimo: e se il patto nuziale non si conchiude, la giovinetta difficilmente troverebbe un secondo partito, ove fosse risaputo ch'ella avesse ricevutoa casa il primo fidanzato. Ma se la dimanda è respinta, l'uomo deve giurare di non cantare piú sotto le finestre della donna, né di recarsi piú a zonzo attorno la casa di lei. Se gli manca questa prudenza, ed osa far lo spasimato e cantar tuttavia, la prima voltagli si manda un avviso amichevole, la seconda gli si corre sopra, e gli si rompe la chitarra, e la terza gli si dà un lampo di siepe.
Lampo di siepe è una espressione energica, e significa un bel colpo di moschetto che un uomo appiattato dietro una siepe manda ad altri nel petto, nel passare che fa giú per la via. Nondimeno se il giovine è ostinato e non può tôrsi quella donna dalla fantasia, e se costei acconsente, ed il rifiuto dei parenti deriva da ragioni debolissime, ei si ricorda di esser bravo calabrese, e ricorre al dritto primitivo, all'occupazione come la intendevano i nostri padri romani, cioè alla forza. I riti infatti nuziali presso i figliuoli di Romolo ritraevano di un ratto; la fidanzata era rapita dal seno della madre, che con simulata paura dovea stringersela al seno; era assalita dai paraninfi, e, di notte, calata per la finestra, accompagnata con le fiaccole, imbavagliata con un velo (flammeum) sospinta sulle braccia entro la casa dello sposo, che col coltello le discriminava i capelli. Tutti questi costumi lievemente modificati continuano in Calabria e son rimasti ancora nei paesi vicini a Napoli, in cui le donne portano tuttavia una spadetta dentro le trecce. Il dritto quiritario era il dritto dei forti, e il romano nostro padre conficcava la spada nelle chiome della sua donna, quasi dicesse: Ella è mia proprietà
ottima; la mia spada la conquistò, e la mia spada saprà conservarmela. Il calabrese dunque che nelle scuole si ricorda di essere concittadino di Augusto, e nei campi d'essere fratello dei lupi, adopera il dritto lupino, e afferra la donna come una pecora. Quand'ella va di domenica alla messa, e il sacrato è gremito di gente, e gli organi suonano, e le campane squillano, egli in faccia al Sole, in faccia a Dio, infaccia al popolo irrompe tra le donne come Nibbio (dice la canzone) sopra stuolo di colombe, abbranca quella, ch'egli ama; e o la imbianca, o la scapiglia, o le toglie la maschera.
Spieghiamo questi vocaboli. La fanciulla nubile mena in Calabria vita devota, e reca in capo un velo di colore scuro: l'uomo dunque le toglie quel velo, gliene sciorina sopra un altro bianchissimo, e la donna dicesi imbiancata.
La fanciulla nubile porta la chioma coperta; perché questa bella vegetazione della testa, questa selvetta dove amore tende le sue paniuzze, è cosa sacra in Calabria. L'uomo dunque le strappa il velo geloso, e la donna dicesi scapigliata. La fanciulla nubile ha veste e corpetto senza maniche; la gonna ha nella parte superiore tre buchi, in quel di mezzo ella ficca la testa, nei due laterali le braccia, e questi due si chiamano muschere.
Ora l'uomo le taglia col coltello queste benedette muschere, e la donna dicesi segnata. Ed ecco qui tutto il dritto romano primitivo. Il principio e la ragione della proprietà è la trasformazione, è il trasfondere che fa l'uomo alle cose la propria personalità. Il romano pigliava possesso d'un podere frangendo un ramo, una stipula, conficcando un palo, tirando un solco; e il calabrese strappa il velo alla donna, e spezza la muschera, e le conficca
un fazzoletto sulla testa. Allora tutto è fatto: i parenti, devono piegare la testa e chiamare il notaro; ché dopo una dichiarazione cosí solenne qual uomo vuoi tu che domandi la mano d'una donna imbiancata, scapigliata, e segnata da un altro? Questi modi eroici e romulei di trattar le nozze erano comuni in Calabria a tutte le classi, sí ai contadini, e sí ai signori; ma ora costoro ripudiando i tre primi da me ricordati, si attengono al quarto che è il seguente. Indettatasi coll'uomo, la donna l'attende dietro l'uscio di via: l'amante passa, ella tosse, quei se la toglie sotto il braccio, va con lei due o tre volte pel paese, e la lascia in deposito in un'altra famiglia. Ch'è? che non è? Rosina è volata; i vecchi padri soffiano, l'amante fa lo gnorri, la fuggitiva è reclusa, e il paese parla! Si chiama dunque il notaro, si roga l'atto, e figli maschi. Ciò che veramente onora la Calabria è che l'amore vi si fa seriamente. È nell'indole del calabrese il deliberare attesamente pria di pigliare un partito; ma preso ch'ei l'abbia, ha la testa piú dura d'una catapulta. Ei, per esempio, non s'innamora al primo sguardo, e al primo riso: ci vuole ben altra pania per tanto merlo; ma imprende una severissima inquisizione sul fatto della fanciulla; e un pelo che si trovi torto nel panno, il mercato va a monte. Sposa ordinariamente la sua vicina, quella, che s'èveduta nascere e pascere, e gli è cresciuta sotto gli occhi, e cui nessuna bocca ha potuto dir Ma. Prende diligente conto dei costumi della madre della giovine, perché un sapientissimo proverbio calabrese dice: Onde salta la capra, salta la capretta; e questa solidarietà di onore, in virtú della quale la vergogna della madre si riversa sulla figlia, è sostegno in Calabria alla fedeltà coniugale. Una donna può odiare il marito, ma è impossibile che non ami la figlia; una donna è amante poche volte, è madre sempre; e il sapere che ogni suo passo falso condannerà la figlia innocente alla vergogna ed alla solitudine, la ritrae dal pensiero di commettere cosa meno che onesta. Il calabrese dunque poiché è sicuro dell'amore e dell'onore della fanciulla, e dei buoni costumi della madre di lei, chiude gli occhi, e segua che può. Anche la giovinetta innanzi di concedere il suo cuore vi pensa e ripensa, e consulta il cielo e la terra. La donna fu in tutti i tempi creduta piena di spirito profetico; Pitia nella Grecia chiamava l'avvenire innanzi al suo tripode; Lamia in Roma faceva scendersi la luna sul grembiale; Sibilla in Napoli scriveva il destino degli uomini sulle frondi cadute dell'autunno e le consegnava al vento; Velleda tra i Druidi si appollaiava tra le querce, e chiamava la vittoria sul suo popolo; Valkiria tra i padri di Hegel parlava coi venti, come Hegel ha parlato con le nuvole; e bella in tutti i luoghi ed in tutti i tempi ha detto all'uomo: «Io sono il frutto della scienza e della morte,
mangiane,ed adorami». La giovinetta calabrese si crede dunque profetessa. Va in campagna? Se dalla siepe esce un serpe, ed alla vista di lei fugge per la parte superiore del sentiero, gli è segno ch'ella avrà un buon marito. La donna e il serpe son due animali misteriosi,egualmente belli, egualmente astuti e solitarii. Quando una donna cammina, nelle varie movenze della snella e flessibile vita di lei, tu osservi le graziose ondulazioni d'un serpe; quando una donna ti guarda, tu le vedi sotto il crespo arco delle sopracciglia le pupille magnetiche della vipera; quando una donna affida all'eburneo dente del pettine le chiome inanellate tu miri un fascio di colubri, che le susurra sugli òmeri. Esso dunque, se scappa, in alto, è buon presagio alla fanciulla calabrese. Orvedi tu quella fonte? Vedi tu quel laghetto formato dalla fonte? La cicala canta tra le messi mature; il vento delle valli piglia la polvere, e turbinandola la versa sulle vigne che verdeggiano sulle coste dei monti; l'ombre delle querce lottano sul terreno con la luce; e la giovinetta calabrese sta con gli occhi immoti sul liquido specchio della fontana. Che idea poetica! I matrimonii, dicono in Calabria, vengono dal Cielo: ora l'azzurro del cielo e le nuvole bianche del cielo, e gli uccelli che passano pel cielo si vedono dipinti in fondo al lago: perché dunque il cielo non dovrebbe versare in quel lago anche l'immagine del giovinetto, ch'egli destina sposo all'innamorata fanciulla? Oh felice l'uomo, se la donna sua pria di sposarlo ebbe la potenza, dirò cosí di evocare lo spirito di lui, e farsene comparire l'immagine sul volto d'una fonte limpida! Se la fantasia di lei poté tanto, s'ella lo vide, la è prova questa che lo ama: ché di tali prodigi il solo amore può esser padre. Grazioso spettacolo offre poi Rossano ad ogni calen di mese. Sopra rocce tagliate a picco sorge il tempietto, il Pilerio; giú una valle profonda; in mezzo alla valle un fiume; in mezzo al fiume bianchi pietroni e bianche lavandaie, che battono i loro pannilini sopra i bianchi pietroni; ed oltre il fiume le donne ed i pietroni, monti e colli, olivi e vigne, querce e castagni. Ora le fanciulle se ne vanno a pregare al Pilerio, e se lungo la strada incontrano una donna che fabbrichi il pane, o fornaio che lo rechi cotto dal forno; e se all'affacciarsi loro dalla roccia le lavandaie prorompono in liete canzoni, e liete parole odono per la via sulla bocca ai fanciulli, han tutto ciò in conto di augurio felice, e il marito è bello e fatto, e il giovine che le ama sarà lo sposo. Fantasie greche e romane, qual romantico oserà dirvi morte, se voi vivete tuttora? Sia comunque lo stato attuale della nostra coltura, è sempre però innegabile che le nostre donne discendono in linea retta dalle madri dei Camilli e degli Scipioni. Ne volete altra prova? Percorrete la provincia di Reggio, e vedrete che quivi la fanciulla, la quale ama di mirare tra le visioni del sogno l'immagine del giovine amato, e far con esso lui un dolce favellío, si pone, quando va a letto la sera, una fronda di alloro sotto l'origliere, la fronda cioè dell'albero che i calabresi greci e romani sacravano al Dio della poesia, e sotto la cui dèlfica ombra risuonavano gli oracoli. Ne volete altra prova? La fanciulla prende la fronda del mirto, del mirto che dava a Venere la corona: piglia dunque la fronda del mirto, o dell'olivo, o del lentisco, e la butta sulle braci. Se la fronda scoppietta e sibila, come un sospiro d'amore, se la fronda si accartoccia e balza lontano, come un cuore che palpita sotto un occhio innamorato, se la fanciulla calabrese si sente lieve la vita al par di quella fronda, tripudia, e dice alla sua sedia, al suo letto, alla sua stanza: «Egli mi ama, egli mi ama!» Ne volete altra prova? Come se amore distruggesse la distanza, come se la catena di lui fosse una catena elettrica, un filo di seta, che conduce da un cuore ad un altro la sua scintilla a traverso mille miglia, la fanciulla calabrese se viene ad un tratto sorpresa da singhiozzo, se si sente un prurito nell'orecchio, incrocia le braccia sul petto e lasciandosi alla balía di mille dolci immaginazioni è certa che l'orecchio le prude, solo perché il suo amante favella di lei; è certa che mentre singhiozza, egli sospira per lei. Finalmente quando vuole accrescere l'affetto di lui, e legarselo per sempre ricorre alla lucertola. Questo vago animaletto, il cui giallo screziato di bruno graziosamente contrasta col verde della siepe nativa; che ti guarda con l'occhio d'un bambino, se tu lo guardi: che caccia fuori la puntina della lingua e si lecca le labbra, se tu gli sorridi, ed attrae ogni anima gentile, quando gravido cammina lentamente e mostra sull'erbe il ventre bianco, è rispettato da tutti i fanciulli calabresi. Figliuoli, dicono le madri, quella bestiuola innocente è nostra amica: ella porta acqua nell'inferno, per estinguerlo. «Oh! che baie! diranno i miei lettori spoetizzati; e queste baie si credono al secolo XIX, e si scrivono nel secolo XIX» Ma, miei cari amici, queste baie le madri calabresi non le credono certo; ma io le noto come esempio del modo, onde in Calabria èlleno cercano di animare il cuore e la fantasia dei loro bambini. Il fanciullo impara cosí ad ammirare il bello della natura, cioè il bello inesauribile di Dio, impara a chiudere in un solo sentimento di amore gli uomini, le piante e le bestie: impara a volgere lo sguardo oltre i confini della vita presente ed a sentire le sante paure dell'invisibile e dell'infinito; ed in ciò io credo che sia la perfezione del cuore e della fantasia. Crescendo negli anni, smetterà queste ubbíe; ma non già il sentimento affettuoso che le suggerí; e se sarà fiero, orgoglioso, impaziente dell'ingiurie, rispetterà certo l'essere debole ed inerme; e se volgerassi agli studi, avrà di che potere addivenire poeta. La poesia tra noi è morta,perché la poesia è la filosofia della barbarie, l'idea non distaccata ancora dalla immagine, la sintesi dell'uomo e della natura, cioè l'uomo fatto cosa, e la cosa fatta uomo, e per esser poeta è d'uopo divenir fanciullo e barbaro mercé la scienza. Ora la fanciulla prende una lucerta, la soffoca nel vino, fa che il sole la dissecchi; la riduce in polvere; poi di quella polvere prende un pizzico, e lo versa addosso all'amante. Ciò si crede un filtro potente, e quindi è venuta la frase: Quella donna mi ha gittata la polvere!

Vincenzo Padula

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Messaggio  Admin Dom 16 Giu - 23:49

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Foto: Gerhard Rohlfs
Visto che spesso parliamo di "calandrelle", questa foto di due contadini dell'area grecanica del basso jonio reggino le rappresenta.
Erano praticamente dei sandali artiginali fatti con pelli di animali che venivano legati con lacci fino al polpaccio (alla greca)

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Messaggio  cuvalo54 Lun 17 Giu - 0:09

Pure i cappelli sono alla greca (credo si tratti di una foto intorno agli anni trenta)
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Messaggio  Admin Lun 17 Giu - 0:18

Si', intorno a quell'epoca...Pensa che Rohlfs camminava a piedi da paese a paese per parlare con le persone; questo l'ha fatto per molti decenni. Se uno ci pensa, quante piazze e vie ci sono in Calabria che gli sono state dedicate? Io credo poche, so' che nel grecanico qualcosa gli e' stato dedicato, come a Badolato mi sembra ci sia una piazza Rohlfs.
Nel resto della Calabria non saprei, credo che i piu' non sanno nemmeno chi sia. noi in Calabria dedichiamo le vie e le piazze ai Savoia.
L'ha visti i cazi? Puru ara greca.

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Messaggio  Admin Lun 17 Giu - 22:05

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Altra foto scattata da Rohlfs ad un contadino della bovesia

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Messaggio  Tonino Lun 17 Giu - 22:40

bella questa nuova stanza , complimentio Admin .
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Messaggio  Admin Sab 21 Set - 23:14


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Messaggio  Admin Lun 23 Set - 21:50

"Calabritudine" - Parole ed Immagini 1a1aaa21

Rosa

Un gallo
ha cantato
e Rosa
col bambino
che dorme
nella cesta,
gia' aspetta sul ponte
per andare
a raccogliere olive.
Anche Rosa
e' stata una ragazza
da farsi guardare,
la voleva il barbiere
che suonava la chitarra
sotto casa,
ma il padrone un giorno
se la porto' dietro una siepe.

Ora Rosa
si aggiusta lo scialle
e pensa
che anche questa
e' una vita,
allevarsi un bambino
e star zitte.

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Messaggio  cuvalo54 Mar 24 Set - 0:23

Gente di Calabria
......
Amore Su di te dorme il giorno del sorriso;
stenta il sole della marina e le selve
tengono il tramonto sulle montagne
che guardano i versanti ai mari;
si raccontano i castagni ai pini
e nell’aria riecheggia la scure
dalla boscaglia che gli antichi fece
grandi armatori e servi dei romani.
......
Lassù svetta il pino silano
e l’aria gela sulla pelle mentre
dagli aghi gocciola la brina
come il pianto delle donne
sulle ali migratorie dei loro figli.
Non ricordi? Il latte appena munto
sul fornello? la nonnina sfarinare
il chicco del caffè col vecchio macinino
a manovella stretto al petto?
quegli aromi del mattino
sparsi nel tempo senza fine?
......
Nell’antica terra di Calabria,
tra gli ulivi silenziosi, è muta
la voce degli avi e dei parenti;
ridotta la conta d’ogni giorno,
singhiozzano tra le frasche
di una nuova potatura.
Cresce invece l’opera incompiuta
ai piani alti ove credeva il genitore
d’ascoltare un dì le voci festanti
dei nipoti ormai stranieri.
......
E’ lì, negli occhi vuoti dei palazzi,
sul Piede, che lacrima da tempo
il figlio di un’Italia dimenticata;
è lì che, ingiallita, sventola
la bandiera bianca di una nazione
e il gelo della tramontana disperde
il pianto amaro solo degli sconfitti.
Giuseppe Ambrosecchia
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Messaggio  Admin Mer 16 Ott - 20:31


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Messaggio  Admin Dom 20 Ott - 22:28

"Calabritudine" - Parole ed Immagini Eaxl
Costume tipico del "brigante" calabrese.  In testa il "cervune", copricapo a forma di cono con tese all'ingiu', corredato da nastri colorati; ai piedi le famose "calandrelle", o porcine allacciate alle caviglie sopra i "cuturni" (calzettoni che arrivavano fino al ginocchio.)

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Messaggio  Admin Ven 25 Ott - 23:19



...Le addolorate
le pieta' di tutti gli ulivi...

(F. Costabile)

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Messaggio  Admin Mar 14 Gen - 22:31

"Calabritudine" - Parole ed Immagini Anonso_zps6fad1f01

Aveva
una vigna
in collina
ma
e' morto
a Milwaukee
non qui.

- Franco Costabile -

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Messaggio  007 Mar 14 Gen - 22:37

Bella foto.
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Messaggio  Tommaso Dom 23 Feb - 15:34

"Calabritudine" - Parole ed Immagini 734869c9-2d4e-417d-a62c-e1781e6dad4e_zps00ef194f

Pensiero poetico, ovvero piccolo omaggio al fotografo, mi servo delle righe di Repaci per aggiungere bellezza a bellezza (che non guasta mai)  prostr 
Tommaso
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Messaggio  007 Dom 23 Feb - 17:13

Foto e parole stanno bene insieme...... Very Happy 
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Messaggio  Admin Ven 28 Mar - 19:42



Aforismi di Antonio Porchia (calabrese di Conflenti, CZ)

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Messaggio  Admin Lun 31 Mar - 16:04

"Calabritudine" - Parole ed Immagini Azap_zps293b0ccb

(Zappatore - Patrizio Mugnaini)

Il Cristo di Cutro

Terre del barone Berlingieri,
terre del barone Barracco,
terre del barone Gallucci,
terre del marchese Lucifero,
terre del barone...
latifondo muto
tra acquitrini odorosi d'oleandri.

Son secoli:
ogni alba,
aridi come sabbia,
neri come pece,
analfabeti,
avanzano,
dannati della terra,
sul reame antico
di Pedro di Toledo
i braccianti.

Ed ogni sera,
morto pallido il sole
oltre la Sila,
lenti,
svisate ombre,
tornano stracciati
nei nervi
a l'abituro.

L'orizzonte di grano sul pianoro
ondeggia come mare
ed il castello
torvo ed arcigno
del raccolto pingue
empie i granai.
Nel grigio del maggese,
fango lavato di sudore,
il casolare,
arso di tristezza
aggruma disperanza.

Solitaria
sul capo la Colonna
bianca svetta sul mare
e bella
la favola ricanta:
dei cieli l'armonia
ne l'unita'
di Pitagora,
l'eliocentrismo
di Filolao,
la medicina
di Alcameone
e di Milone,
ai ludi di Nemea
e di Corinto,
ai ludi di Olimpia,
il primato di forza generosa.

Piu' in alto,
ventoso,
sul culmine di Cutro,
entro il recesso quieto,
francescano,
triste
per la rapina dei baroni,
bruciato
per il pianto dei braccianti
Cristo pencola
ed ogni giorno
muore.

- Mario Squillace -

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