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Riconciliamoci coi capolavori

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Messaggio  Admin Dom 24 Gen - 17:22

Apro una pagina sulla letteratura per poter ogni tanto riavvicinarci ai capolavori che nel tempo ci hanno arricchito culturalmente. Ognuno puo' inserire le pagine che preferisce, non ha importanza se prosa, poesia o altro. Quello che chiedo e' che non si inseriscano brani troppo lunghi per non tediarci con lunghe letture, perche' a quel punto andiamo a comprarci il libro, ma con pezzi di opere che ci hanno piu' impressionato o che semplicemente ci e' piaciuto o ci piace leggere.
Personalmente ho sempre avuto una predilezione per "I promessi Sposi" di Manzoni ed ecco il famoso incontro di Don Abbondio coi bravi.

Riconciliamoci coi capolavori Capitolo1

Che i due descritti di sopra stessero ivi ad aspettar qualcheduno, era cosa troppo evidente; ma quel che più dispiacque a don Abbondio fu il dover accorgersi, per certi atti, che l'aspettato era lui. Perché, al suo apparire, coloro s'eran guardati in viso, alzando la testa, con un movimento dal quale si scorgeva che tutt'e due a un tratto avevan detto: è lui; quello che stava a cavalcioni s'era alzato, tirando la sua gamba sulla strada; l'altro s'era staccato dal muro; e tutt'e due gli s'avviavano incontro. Egli, tenendosi sempre il breviario aperto dinanzi, come se leggesse, spingeva lo sguardo in su, per ispiar le mosse di coloro; e, vedendoseli venir proprio incontro, fu assalito a un tratto da mille pensieri. Domandò subito in fretta a se stesso, se, tra i bravi e lui, ci fosse qualche uscita di strada, a destra o a sinistra; e gli sovvenne subito di no. Fece un rapido esame, se avesse peccato contro qualche potente, contro qualche vendicativo; ma, anche in quel turbamento, il testimonio consolante della coscienza lo rassicurava alquanto: i bravi però s'avvicinavano, guardandolo fisso. Mise l'indice e il medio della mano sinistra nel collare, come per raccomodarlo; e, girando le due dita intorno al collo, volgeva intanto la faccia all'indietro, torcendo insieme la bocca, e guardando con la coda dell'occhio, fin dove poteva, se qualcheduno arrivasse; ma non vide nessuno. Diede un'occhiata, al di sopra del muricciolo, ne' campi: nessuno; un'altra più modesta sulla strada dinanzi; nessuno, fuorché i bravi. Che fare? tornare indietro, non era a tempo: darla a gambe, era lo stesso che dire, inseguitemi, o peggio. Non potendo schivare il pericolo, vi corse incontro, perché i momenti di quell'incertezza erano allora così penosi per lui, che non desiderava altro che d'abbreviarli. Affrettò il passo, recitò un versetto a voce più alta, compose la faccia a tutta quella quiete e ilarità che poté, fece ogni sforzo per preparare un sorriso; quando si trovò a fronte dei due galantuomini, disse mentalmente: ci siamo; e si fermò su due piedi.

- Signor curato, - disse un di que' due, piantandogli gli occhi in faccia.

- Cosa comanda? - rispose subito don Abbondio, alzando i suoi dal libro, che gli restò spalancato nelle mani, come sur un leggìo.

- Lei ha intenzione, - proseguì l'altro, con l'atto minaccioso e iracondo di chi coglie un suo inferiore sull'intraprendere una ribalderia, - lei ha intenzione di maritar domani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella!

- Cioè... - rispose, con voce tremolante, don Abbondio: - cioè. Lor signori son uomini di mondo, e sanno benissimo come vanno queste faccende. Il povero curato non c'entra: fanno i loro pasticci tra loro, e poi... e poi, vengon da noi, come s'anderebbe a un banco a riscotere; e noi... noi siamo i servitori del comune.

- Or bene, - gli disse il bravo, all'orecchio, ma in tono solenne di comando, - questo matrimonio non s'ha da fare, né domani, né mai.

- Ma, signori miei, - replicò don Abbondio, con la voce mansueta e gentile di chi vuol persuadere un impaziente, - ma, signori miei, si degnino di mettersi ne' miei panni. Se la cosa dipendesse da me,... vedon bene che a me non me ne vien nulla in tasca...

- Orsù, - interruppe il bravo, - se la cosa avesse a decidersi a ciarle, lei ci metterebbe in sacco. Noi non ne sappiamo, né vogliam saperne di più. Uomo avvertito... lei c'intende.

- Ma lor signori son troppo giusti, troppo ragionevoli...

- Ma, - interruppe questa volta l'altro compagnone, che non aveva parlato fin allora, - ma il matrimonio non si farà, o... - e qui una buona bestemmia, - o chi lo farà non se ne pentirà, perché non ne avrà tempo, e... - un'altra bestemmia.

- Zitto, zitto, - riprese il primo oratore: - il signor curato è un uomo che sa il viver del mondo; e noi siam galantuomini, che non vogliam fargli del male, purché abbia giudizio. Signor curato, l'illustrissimo signor don Rodrigo nostro padrone la riverisce caramente.

Questo nome fu, nella mente di don Abbondio, come, nel forte d'un temporale notturno, un lampo che illumina momentaneamente e in confuso gli oggetti, e accresce il terrore. Fece, come per istinto, un grand'inchino, e disse: - se mi sapessero suggerire...

- Oh! suggerire a lei che sa di latino! - interruppe ancora il bravo, con un riso tra lo sguaiato e il feroce. - A lei tocca. E sopra tutto, non si lasci uscir parola su questo avviso che le abbiam dato per suo bene; altrimenti... ehm... sarebbe lo stesso che fare quel tal matrimonio. Via, che vuol che si dica in suo nome all'illustrissimo signor don Rodrigo?

- Il mio rispetto...

- Si spieghi meglio!

-... Disposto... disposto sempre all'ubbidienza -. E, proferendo queste parole, non sapeva nemmen lui se faceva una promessa, o un complimento. I bravi le presero, o mostraron di prenderle nel significato più serio.

- Benissimo, e buona notte, messere, - disse l'un d'essi, in atto di partir col compagno. Don Abbondio, che, pochi momenti prima, avrebbe dato un occhio per iscansarli, allora avrebbe voluto prolungar la conversazione e le trattative. - Signori... - cominciò, chiudendo il libro con le due mani; ma quelli, senza più dargli udienza, presero la strada dond'era lui venuto, e s'allontanarono, cantando una canzonaccia che non voglio trascrivere. Il povero don Abbondio rimase un momento a bocca aperta, come incantato; poi prese quella delle due stradette che conduceva a casa sua, mettendo innanzi a stento una gamba dopo l'altra, che parevano aggranchiate. Come stesse di dentro, s'intenderà meglio, quando avrem detto qualche cosa del suo naturale, e de' tempi in cui gli era toccato di vivere.

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Messaggio  Ludovico Mar 26 Gen - 23:49

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buona idea, mi è cara questa poesia di Giacomino.


Canto notturno di un pastore errante dell'Asia


Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
per montagna e per valle,
per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l'ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e piú e piú s'affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu vòlto:
abisso orrido, immenso,
ov'ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
è la vita mortale.
Nasce l'uomo a fatica,
ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell'esser nato.
Poi che crescendo viene,
l'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
con atti e con parole
studiasi fargli core,
e consolarlo dell'umano stato:
altro ufficio piú grato
non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
perché reggere in vita
chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
è lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
e forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
che sí pensosa sei, tu forse intendi,
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia;
che sia questo morir, questo supremo
scolorar del sembiante,
e perir dalla terra, e venir meno
ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
il perché delle cose, e vedi il frutto
del mattin, della sera,
del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
rida la primavera,
a chi giovi l'ardore, e che procacci
il verno co' suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
che son celate al semplice pastore.
spesso quand'io ti miro
star cosí muta in sul deserto piano,
che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovver con la mia greggia
seguirmi viaggiando a mano a mano;
e quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
a che tante facelle?
che fa l'aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono?
Cosí meco ragiono: e della stanza
smisurata e superba,
e dell'innumerabile famiglia;
poi di tanto adoprar, di tanti moti
d'ogni celeste, ogni terrena cosa,
girando senza posa,
per tornar sempre là donde son mosse;
uso alcuno, alcun frutto
indovinar non so. Ma tu per certo,
giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
che degli eterni giri,
che dell'esser mio frale,
qualche bene o contento
avrà fors'altri; a me la vita è male.
O greggia mia che posi, oh te beata,
che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d'affanno
quasi libera vai;
ch'ogni stento, ogni danno,
ogni estremo timor subito scordi;
ma piú perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
tu se' queta e contenta;
e gran parte dell'anno
senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
e un fastidio m'ingombra
la mente, ed uno spron quasi mi punge
sí che, sedendo, piú che mai son lunge
da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
se tu parlar sapessi, io chiederei:
- Dimmi: perché giacendo
a bell'agio, ozioso,
s'appaga ogni animale;
me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale? -
Forse s'avess'io l'ale
da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
piú felice sarei, dolce mia greggia,
piú felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dí natale.

-Giacomo Leopardi -
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Messaggio  OCCAM Dom 16 Mag - 19:40

"...La favola d'Alice rimane come un sogno di cose lontane, come un dolce ricordo gentile
chiuso nella memoria infantile, come l'odore di rosmarino ch'è nella veste del pellegrino". Cose lontane, dolce ricordo gentile, memoria infantile, l'odore di rosmarino e vestito da pellegrino... Tutte evocazioni queste che il Selliese adulto DOC e ivi residente o quello, soprattutto e anche per l'ultima delle suddette evocazioni, altrove residente, vive, per l'appunto, come un sogno.
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Messaggio  Admin Mer 19 Mag - 23:43

"Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti".

( "La luna e i falo' " di Cesare Pavese )

***

Sulla scia di Occam, o se si vuole, sulle sempre fresche tracce del ricordo, sia esso nostalgico o meno, poco importa. Perche' il ricordo non e' solo mera nostalgia, il ricordo e' un posto in un angolo della memoria che rende ognuno di noi unico, perche' quello che rimane impresso nella mente di una persona puo' passare per qualcosa di insignificante nella memoria di un'altra.

"Un paese ci vuole... nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti", scriveva Pavese, un uomo del Piemonte ma che aveva vissuto in Calabria ai tempi del confino, perche' i sentimenti non tengono conto dei meridiani e paralleli e l'uomo, ovunque esso sia, ha bisogno di qualcosa di suo: profumi, voci, sapori ma anche la solitudine di un pomeriggio assolato per osservare la natura e riassaporare l'antico; invisibile ed astratto a molti ma non a chi ricorda persino i dettagli: siano essi la piega del cipresso nel vento o il profumo della terra che e' poi quello che rimane sempre ad aspettare.

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Messaggio  Admin Ven 14 Ott - 22:47



prostr prostr prostr

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Messaggio  Il Ruminante Sab 11 Feb - 11:05

“Non s'incontrano spesso uomini la cui totale nullità sfugge al giudizio della maggior parte delle persone che li conoscono? - scrive H. de Balzac, nel suo "La donna di trent'anni" - Una buona posizione sociale, un nome illustre, una certa vernice di cortesia...costituiscono, per così dire, una barriera che vieta alla critica di penetrare nella loro vita intima...Sono personaggi la cui superiorità è convenzionale: interrogano invece di parlare, possiedono l'arte di spingere sulla scena gli altri per evitare di mostrarsi, poi, con grande abilità, muovono ogni individuo con il filo delle proprie passioni e dei propri interessi e prendono così il sopravvento su caratteri in realtà assai superiori al loro, facendone delle marionette e giudicandoli piccoli uomini dal momento che sono riusciti ad abbassarli sino a se stessi. In tal modo idee meschine, ma ben radicate, possono trionfare su nobili pensieri più in movimento. Per giudicare queste teste vuote e pesare il loro valore negativo, l'osservatore deve possedere uno spirito più sottile che superiore, più pazienza che larghezza di vedute, maggior finezza e tatto che non pensieri nobili ed elevati. Tuttavia, qualsiasi abilità spieghino questi usurpatori nel difendere i propri lati deboli, è difficilissimo che riescano a ingannare le madri, le mogli, i figli o l'amico di casa, i quali però non soltanto conservano quasi sempre il segreto su cose che riguardano, per così dire, l'onore di tutti, spesso li aiutano ad affermarsi nel mondo. Se in virtù di tali cospirazioni domestiche, molti sciocchi passano per uomini superiori, in compenso molti uomini superiori passano per sciocchi, di modo che la società seguita ad avere la stessa massa di capacità apparente....”. Le nullità, dunque, prosperano, sfuggendo al confronto diretto con il prossimo. Ma, pur sfuggendo, riescono ad essere protagonisti e diventare abili manipolatrici occulte del mondo che le circonda, proprio a causa della loro inconsistenza, delle loro personalità sfuggenti perché prive di sostanza. Purtroppo, sono proprio le "cospirazioni domestiche", la forza delle nullità. Quel bozzolo d'ovatta il quale non si vuole schiudere e dal quale non si vuole evadere, forti delle loro maschere tenute sù ben salde da considerazioni di opportunità.
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Messaggio  Admin Dom 12 Feb - 22:10

Quanta verita' in queste righe; volevo farne risaltare alcune in modo particolare, ma ogni parola e' come un bisturi che squarcia l'ipocrisia, quindi anche la punteggiatura potrebbe essere paragonata a gocce di sangue che tentano di "lavare" i sepolcri imbiancati.

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Messaggio  OCCAM Lun 13 Feb - 18:03

"...la punteggiatura potrebbe essere paragonata a gocce di sangue che tentano di "lavare" i sepolcri imbiancati."
Creativa, vivida, immaginifica e contestuale similitudine la Vostra, oh Frate Guardianus. Genus est non aqua.
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Messaggio  Admin Mar 14 Feb - 15:17

Occam, il merito e' tutto di Rumy che e' andato a ruminare "balzacchiando" come si deve.

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Messaggio  Admin Mer 15 Feb - 23:09


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Messaggio  Il Ruminante Ven 24 Feb - 11:18

“....Il Potere vinse ancora una volta. L'eterno Potere che non muore mai, che cade solo per risorgere, uguale a se stesso, diverso solo nella tinta. Ma tu lo avevi ben capito, che sarebbe finita a quel modo e, se mai avesti un dubbio, esso svanì nell'attimo in cui tirasti il respiro profondo che ti succhiava dall'altra parte del tunnel: nel pozzo dove vengono puntualmente gettati coloro che vorrebbero cambiare il mondo, abbattere la montagna, dar voce e dignità al gregge che bela dentro il suo fiume di lana. I disubbidienti. I solitari incompresi. I poeti. Gli eroi delle fiabe insensate ma senza le quali la vita non avrebbe alcun senso e battersi sapendo di perdere sarebbe pura follia. Tuttavia, per un giorno, quel giorno che conta, che riscatta, che viene magari quando non si spera più, e venedo lascia nell'aria un microscopico seme da cui sboccerà un fiore, lo capì anche il gregge che bela dentro il suo fiume di lana. Non più gregge quel giorno, ma piovra che strozza e ruggisce zi, zi, zi!..."--Un Uomo, Oriana Fallaci
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Messaggio  Admin Sab 3 Nov - 16:01


prostr

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Messaggio  007 Sab 3 Nov - 16:45

Grande interpretazione....
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Messaggio  Admin Mer 16 Gen - 22:37


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