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IL SANTO DEL GIORNO

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Messaggio  Attilio Citrino Lun 23 Gen - 11:34

SANT'EMERIZIANA
Un ignoto autore del sec. V aggiunse alla passio latina di s. Agnese, scritta dallo pseudo-Ambrogio, un terzo capitolo che si dilunga sui funerali della santa, sulla sua apparizione ai genitori, otto giorni dopo la morte, e sulla fondazione della basilica in suo onore da parte di Costanza, figlia di Costantino.
Tra i fedeli accorsi ai funerali di Agnese è ricordata anche "Emerentiana, quae fuerat collactanea eius, virgo sanctissima, licet cathecumena". Un'improvvisa aggressione da parte di pagani fanatici disperse i cristiani. Emerenziana, invece di fuggire, apostrofò coraggiosamente gli assalitori, finendo però lapidata. I genitori di s. Agnese ne seppellirono il corpo nei pressi: "in confinio agelli beatissimae virginis Agnetis", cioè sui limiti della loro proprietà. Non c'è dubbio, conclude l'autore, enunciando la dottrina sul Battesimo di sangue, che Emerenziana sia stata battezzata nel suo sangue, essendo morta per la difesa della giustizia, confessando il Signore. Purtroppo però tutto il terzo capitolo della passio Agnetis è giudicato assai severamente dalla critica. Ignorato da s. Massimo di Torino (423), che pur utilizza largamente la passio, e pieno di inesattezze sull'epoca di Costantino, 3i rivela manifestamente opera tardiva e cervellotica.
Gli unici elementi del racconto relativi ad Emerenziana per altra via documentabili sono il nome della santa, il suo martirio, quale che ne sia stata la forma, la sua sepoltura nei pressi del sepolcro di s. Agnese. Secondo parecchi critici un altro elemento ancora potrebbe essere accettato, sia pure con riserva, che cioè la santa fosse davvero ancora catecumena allorché fu uccisa. Esso infatti non fa parte del solito repertorio dei fabbricanti di passiones e potrebbe ben essere l'eco d'una ininterrotta tradizione. Una determinazione cronologica del martirio è impossibile. Di solito si pensa all'epoca di Diocleziano.
Indipendentemente dalla passio, e prima di essa, E. è con sicurezza attestata dal Martirologio Geronimiano che nella sua redazione più antica la ricorda in un gruppo di martiri del Coemeterium Maius sulla Via Nomentana e da un'epigrafe proveniente dallo stesso cimitero.
Il Geronimiano al 16 settembre reca: "Romae, via Nomentana ad Capream, in cimiterio maiore Victoris, Felicis, Alexandri, Papiae, Emerentianetis"; lo stesso elogio meno qualche nome si ritrova al 20 aprile, ma per una incomprensibile migrazione. L'epigrafe, trovata mutila dal De Rossi presso Ponte Rotto e solo recentemente completata del frammento mancante ritrovato negli scavi del Coemeterium Maius, fa eco alla commemorazione liturgica del martirologio.
Emerenziana non sembra avere una posizione di particolare rilievo nel gruppo che fa capo a Vittore. È solo sotto l'influsso della passio che viene ad acquistarvi una preminenza, proprio perché unita alla martire Agnese della cui straordinaria popolarità partecipa. Un segno evidente del cambiamento si ha nella istituzione di una speciale commemorazione liturgica in onore di Emerenziana al 23 gennaio, due giorni dopo la festa di s. Agnese, avvenuta nel sec. VIII, registrata nel Martirologio di Beda, nei codici tardivi del Geronimiano e nel Sacramentario Gelasiano del sec. VIII, donde poi passò nel Messale e nel Martirologio Romano.
Anche nella iconografia dello stesso Cimitero Maggiore, Emerenziana appare costantemente in gruppo con gli altri martiri nelle raffigurazioni più antiche. Così su due pitture assai guaste e su una transenna votiva scoperte nel 1855 si trovano cinque santi riuniti. Lo stesso doveva essere per l'epigrafe dipinta nell'abside di una cripta del medesimo cimitero, scoperta nel 1873 dall'Armellini e da lui considerata la sepoltura primitiva di Emerenziana, solo perché era riuscito a decifrare soltanto il suo nome tra gli altri completamente sbiaditi. Più tardi, invece, sembra sia stata raffigurata sola, se si deve identificarla nella giovane santa con due devoti ai piedi di una pittura scoperta nel 1933 in un piccolo cubiculum dello stesso cimitero. Nei musaici di S. Apollinare Nuovo a Ravenna, della prima metà dei sec. VI, Emerenziana splende nella teoria delle vergini tra s. Paolina e s. Daria.
Una riprova dell'awenuto cambiamento si ha negli itinerari del sec. VII, che ricordano Emerenziana in primo luogo tra i martiri del Coemeterium Maius, testimoniando anche della ecclesia o basilica, eretta sul suo sepolcro.
L'Itinerarium Salisburgense, parlando della via Nomentana, reca: "et postea vadis ad orientem, quousque pervenies ad s. Emerenziana martyrem, quae pausat in ecclesia sursum et duo martyres in spelunca deorsum, Victor et Alexander".
E l'Epitome de locis sanctorum: "Basilica s. Agnes... propeque ibi soror eius Emerentiana, in alia tamen basilica dormit. Ibi quoque in singulari ecclesia Constantia Constantini filia requiescit sanctusque Alexander, s. Felicis, s. Papia, s. Victor et alii multi dormiunt .
E la notizia di Guglielmo di Malmesbury: "Iuxta viam s. Agnetis et ecclesia et corpus, in altera ecclesia s. Emerentiana et martyres Alexander, Felix, Papias".
Sul sepolcro della martire che doveva trovarsi all'iniz~o della zona, al livello del suolo, era stata dunque eretta una chiesa e il Liber Pontificalis ci fa sapere che essa fu restaurata da Adriano I (772-95).
Le reliquie di Emerenziana furono trasferite nel sec. IX nella basilica di S. Agnese. Paolo V nel 1615 ordinò un'artistica cassa d'argento, in cui fece racchiudere i corpi delle due sante e che fu collocata sotto l'altare maggiore. Altre chiese in Roma hanno conservato il ricordo della martire: S. Agnese a Piazza Navona, dove le fu dedicato un altare nel 1123; S. Pietro in Vincoli, dove sarebbe conservata la testa; S. Maria in Campitelli, dove si mostra un suo dito. Recentemente le è stata intitolata una nuova grande parrocchia nel quartiere Nomentano. In Spagna, in Germania, a Bruxelles, si pretende di avere sue reliquie. Secondo le Vies des Saints (cit. in bibl.), in Francia, nella regione dell'Anjou, nel sec. XII, esisteva una cappella a lei dedicata che il re Luigi XI dotò di alcune sue reliquie nel 1472. Poiché tardive leggende complicarono il martirio di Emerenziana raccontando che le era stato squarciato il ventre, ella fu invocata, specialmente in Francia, contro il mal di ventre.
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Messaggio  franco Dom 5 Feb - 21:32

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Agata nacque in una famiglia siciliana ricca e nobile, nell'anno 238, indicata come di origine catanese o palermitana.
I documenti narrativi del martirio di s. Agata in tre punti indicano che s. Agata potrebbe essere nata a Catania: Il primo punto è quello relativo all'inizio del processo, secondo il testo fornito dalla redazione latina. Tale redazione, infatti, esordisce rilevando nel vers. 1 che Agata fu martirizzata a Catania; nel vers. 24 la stessa redazione latina riferisce che Quinziano interpella Agata invitandola a dire di che condizione fosse; e nel vers. 25 riferisce che Agata rispose a Quinziano dicendo: "Io non solo sono libera di nascita, ma provengo anche da nobile famiglia, come lo attesta tutta la mia parentela": con queste parole Agata dichiara che tutta la sua parentela era presente e residente a Catania e quindi dà ad intendere che anch'essa era residente a Catania e vi era residente sin dal giorno della sua nascita. Il secondo punto è quello relativo all'apparizione dell'Angelo che, nel momento in cui il cadavere di s. Agata viene seppellito, depone dentro il suo sepolcro una lapide di marmo in cui era scolpito che s. Agata era "anima santa, onore di Dio e liberazione della sua Patria": a tale proposito i versetti 102-104 rilevano che, per dimostrare la verità di quanto espresso in quella lapide e cioè che Agata era la liberazione della sua Patria, Dio, ad un anno appena dalla morte di s. Agata, fa arrestare la lava dell'Etna, che stava invadendo Catania. II terzo punto è quello relativo al fatto che il testo della redazione greca, riportato nel manoscritto del Senato di Messina, espressamente recita che "Catania è la patria della magnanima s. Agata" : tale testo è di assoluto valore storico perché risale all'epoca in cui in Catania ancora non era stato eretto alcun tempio a s. Agata .
Secondo la tradizione cattolica sant'Agata si consacrò a Dio all'età di 15 anni circa, ma studi storico-giuridici approfonditi rivelano un'età non inferiore ai 21 anni: non prima di questa età, infatti, una ragazza poteva essere consacrata diaconessa come effettivamente era Agata, cosa documentata dalla tradizione orale catanese, dai documenti scritti narranti il suo martirio e dalle raffigurazioni iconografiche ravennate, con particolare riferimento alla tunica bianca e al pallio rosso; possiamo quindi a ragione immaginarla, più che come una ragazzina, piuttosto come una donna con ruolo attivo nella sua comunità cristiana: una diaconessa aveva infatti il compito, fra gli altri, di istruire i nuovi adepti alla fede cristiana (catechesi) e preparare i più giovani al battesimo alla prima comunione e alla cresima.
Inoltre, da un punto di vista giuridico, Agata aveva il titolo di "proprietaria di poderi", cioè di beni immobili. Per avere questo titolo le leggi vigenti nell'impero romano pretendevano il raggiungimento del ventunesimo anno di età. Rimanendo sempre in tema giuridico, durante il processo cui Agata fu sottoposta, fu messa in atto la Lex Laetoria, una legge che proteggeva i giovani d'età compresa tra i 20 e i 25 anni, soprattutto giovani donne, dando a chiunque la possibilità di contrapporre una actio polularis contro gli abusi di potere commessi dall'inquisitore: prova ne sia che il processo di Agata si chiuse con un'insurrezione popolare contro Quinziano, che dovette fuggire per sottrarsi al linciaggio della folla catanese.
Nel periodo fra il 250 e il 251 il proconsole Quinziano, giunto alla sede di Catania anche con l'intento di far rispettare l'editto dell'imperatore Decio, che chiedeva a tutti i cristiani di abiurare pubblicamente la loro fede, s'invaghì della giovinetta e, saputo della consacrazione, le ordinò, senza successo, di ripudiare la sua fede e di adorare gli dei pagani. Ma più realisticamente si può immaginare un quadro più complesso: ovvero, dietro la condanna di Agata, la più esposta nella sua benestante famiglia, potrebbe esserci l'intento della confisca di tutti i loro beni.
Al rifiuto deciso di Agata, il proconsole la affidò per un mese alla custodia rieducativa della cortigiana Afrodisia e delle sue figlie, persone molto corrotte. È probabile che Afrodisia fosse una sacerdotessa di Venere o di Cerere, e pertanto dedita alla prostituzione sacra. Il fine di tale affidamento era la corruzione morale di Agata, attraverso una continua pressione psicologica, fatta di allettamenti e minacce, per sottometterla alle voglie di Quinziano, arrivando a tentare di trascinare la giovane catanese nei ritrovi dionisiaci e relative orge, allora molto diffuse a Catania. Ma Agata, in quei giorni, a questi attacchi perversi che le venivano sferrati, contrappose l'assoluta fede in Dio; e pertanto uscì da quella lotta vittoriosa e sicuramente più forte di prima, tanto da scoraggiare le sue stesse tentatrici, le quali rinunciarono all'impegno assuntosi, riconsegnando Agata a Quinziano.
Rivelatosi inutile il tentativo di corromperne i princìpi Quinziano diede avvio ad un processo e convocò Agata al palazzo pretorio. Memorabili sono i dialoghi tra il proconsole e la santa che la tradizione conserva, dialoghi da cui si evince senza dubbio come Agata fosse edotta in dialettica e retorica.
Breve fu il passaggio dal processo al carcere e alle violenze con l'intento di piegare la giovinetta. Inizialmente venne fustigata e sottoposta al violento strappo delle mammelle, mediante delle tenaglie. La tradizione indica che nella notte venne visitata da san Pietro che la rassicurò e ne risanò le ferite. Infine venne sottoposta al supplizio dei carboni ardenti. La notte seguente all'ultima violenza, il 5 febbraio 251, Agata spirò nella sua cella.
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Messaggio  Attilio Citrino Lun 27 Feb - 23:18

IL SANTO DEL GIORNO 27/02/2012

San Gabriele dell'Annunziata
Francesco Possenti, undicesimo di tredici figli, nasce a Assisi il 1 ottobre 1838. Il padre è un alto funzionario dello Stato pontificio. Nel 1841 la famiglia si trasferisce a Spoleto, dove Francesco segue gli studi prima presso le Scuole cristiane e poi nel collegio gesuita della città. La morte della mamma e poi quelle di due fratelli e una sorella lo fanno allontanare dalla vita di società, fino al punto di prendere in seria considerazione la vocazione religiosa. Nel 1856, superando l’opposizione del padre, sceglie di farsi passionista. Nello stesso anno si reca a Morrovalle, presso Loreto, per il noviziato. Veste l’abito passionista il 21 settembre 1857, assumendo il nome di Gabriele di Maria Addolorata. Il giovane si adatta con entusiasmo alla rigida regola della Congregazione, inaugurando una vita di austera penitenza e mortificazione. Nel 1862 riceve l’ordinazione sacerdotale. Sono anni durante i quali Gabriele moltiplica le pratiche di mortificazione e approfondisce la spiritualità mariana. Purtroppo la sua fragile costituzione è minata dalla tubercolosi polmonare. Muore il 27 febbraio del 1862. Nel 1959 è costituito patrono d’Abruzzo.
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Messaggio  Attilio Citrino Mer 29 Feb - 15:14

Beata Antonia da Firenza
Per diffondere luce, a cura di Antonio Maria Sicari
Negli ultimi tempi L’Aquila è diventata una città cara al nostro cuore per le sofferenze che ha subito nel recente terremoto. E’ giusto perciò – in questo 29 febbraio, che ricorre raramente – ricordare la Beata Antonia (nata a Firenze nel 1400) il cui corpo, ancora incorrotto, ha riposato fino a qualche anno fa nel monastero aquilano del Corpus Domini, da lei fondato. Poi le monache han dovuto trasferirsi a Paganica e hanno portato con sé la preziosa reliquia. Si usa dire che L’Aquila è la città delle “novantanove fontane, novantanove piazze, novantanove palazzi, novantanove chiese”, e qualcuno aggiunge simpaticamente: anche “novantanove santi”.
E, difatti, solo a leggere la vicenda terrena della Beata Antonia non è difficile cogliere l’incrociarsi terreno del cammino di vari Santi. Sposata giovanissima e rimasta subito vedova, Antonia incontra San Bernardino da Siena che predica in Santa Croce a Firenze nel 1425. E decide di consacrarsi a Dio, entrando in un convento di terziarie francescane. Poi viene inviata come badessa a Foligno, ad Assisi e a Todi.
Inviata a L’Aquila nel 1433 vi fonda un nuovo convento di terziarie francescane che dirige per tredici anni. Ma in cuore ha il desiderio di una forma di vita più nascosta, in assoluta povertà, secondo l’antico ideale delle clarisse. Lo può alla fine realizzare con l’aiuto di S. Giovanni da Capistrano fondando il monastero dell’Eucaristia, detto anche “di Santa Chiara povera”.
Qui Antonia vive in umiltà e nascondimento, ma amata da tutta la città. Le cronache dicono che si poteva applicare anche a lei quello che il Celano aveva scritto di S. Chiara che, dal nascondimento del suo monastero, “diffondeva chiarore in tutto il mondo; lei, infatti, taceva ma la sua fama gridava”. Morì nel 1472, lasciando un monastero dove abiteranno poi molti altre sante.
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Altri Santi del giorno

S. Osvaldo di Worchester (X sec.);
S. Augusto Chapdelaine (1814-1856).


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Messaggio  Attilio Citrino Ven 2 Mar - 1:53

S.Agnese di Boemia
Libertà di appartenere, a cura di Antonio Maria Sicari

Agnese, figlia del Re di Boemia (l’attuale Repubblica Ceca) e nipote del Re d’Ungheria, nacque a Praga nel 1221 e fu una delle principessine più corteggiate del suo tempo.

A nove anni era già promessa sposa al figlio dell’imperatore Federico Barbarossa ed era stata, per questo, condotta alla corte del Duca di Vienna. Solo a quattordici anni era riuscita a rompere il fidanzamento e a tornare in patria.

Si fecero avanti allora il Re d’Inghilterra e lo stesso Barbarossa per chiederla in sposa, ma la ragazza s’era ormai irrimediabilmente innamorata: di Cristo. Lo era sempre stata, fin da bambina, ma l’amore era cresciuto da quando erano giunti nella sua patria alcuni francescani che le avevano raccontato la storia di Chiara d’Assisi.

Agnese decise di imitarla, facendo voto di verginità, anelando a imitarla anche nella povertà. E poiché l’assedio dei regali pretendenti non cessava, Agnese si appellò al Papa che difese la libertà della ragazza e la santità del voto che la legava indissolubilmente a Cristo.

Subito la principessa si liberò anche delle sue ricchezze e fondò un monastero per vivere, assieme ad altre ragazze, quella povertà radicale che Chiara le insegnava (e possediamo la bella corrispondenza che la Santa d’Assisi le inviava). Ma, accanto, fondò anche un ospedale, per la cura dei più miseri. L’intera Europa fu presa da stupore per quella dolce vicenda di amore sacro e di femminile libertà cristiana che la Chiesa sapeva garantire.

È stata canonizzata da Giovanni Paolo II nel 1989, per sottolineare proprio in quell’anno fatidico, la forza e la bellezza delle radici cristiane dell’Europa
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Messaggio  Attilio Citrino Dom 4 Mar - 22:11

Santo del giorno 05.03.2012
SANT'ADRIANO DI CESAREA
A Cesarea in Palestina, sant’Adriano, martire, che, durante la persecuzione dell’imperatore Diocleziano, nel giorno in cui gli abitanti erano soliti celebrare la festa della Fortuna, per ordine del governatore Firmiliano, fu per la sua fede in Cristo dapprima fu gettato in pasto a un leone e poi sgozzato con la spada.
Subì il martirio con Eubulo il 5 o 7 marzo 309, «sesto anno della persecuzione», secondo la testimonianza di Eusebio. Essendo venuti ambedue a Cesarea in Palestina per aiutare i martiri di quella città, i due santi furono scoperti e, per aver confessato la loro fede, furono condannati alle belve. Adriano, dopo essere stato gettato in pasto ad un leone, fu finito con la spada. Nei sinassari greci il giorno 7 o 8 maggio è celebrata la festa dei ss. mm. Eubulo e Giuliano, ma è chiaro, come ha acutamente osservato il Delehaye, che sotto questo secondo nome si nasconde una corruzione del nome di Adriano. Qualche cosa di analogo è accaduto nel Martirologio Geronimiano, dove fra i santi ricordati il 5 marzo sono menzionati Adriano ed Euvolo, il cui nome appare corrotto nei codd. secondo la pronunzia bizantina.
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Messaggio  Attilio Citrino Lun 5 Mar - 22:26

SANTO DEL GIORNO 7 MARZO 2011 SANTE PERPETUA E FELICITA -
Si celebrano oggi come sante del giorno le sante Perpetua e Felicita, entrambe martiri per la loro fede, come simboleggiano le palme con cui vengono rappresentate nell’icconografia tradizionale. Entrambe furono arrestate a Cartagine sotto l’imperatore Settimio Severo insieme ad altre giovani catecumene.
Perpetua era madre di un bambino ancora lattante, mentre Felicita portava avanti una gravidanza ormai avanzata. I loro aguzzini non ne ebbero pietà, aspettarono solo il parto di Felicita, perché non poteva essere uccisa da incinta, secondo la legge.
Siamo a Cartagine, nel Nord Africa, anno 203. Santa Perpetua fu tenuta a lungo in carcere in attesa della morte, e in quei giorni tenne una sorta di diario in cui descrisse la prigione affollata, il caldo che tormentava quella povera gente; santa Perpetua si segna nomi di visitatori, racconta sogni e visioni degli ultimi giorni. Perpetua, appena ventiduenne, era una gentildonna, sposata e madre di un bambino.
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Messaggio  Attilio Citrino Mer 7 Mar - 22:28

08 marzo 2012
San Giovanni di Dio, religioso

Portogallo, 1495 - Granada, Spagna, 1550

Giovanni, successivamente contadino, militare, commerciante, si sentì alla fine chiamato a servire Cristo nei malati. Fondò ospedali, dove pieno di fiducia nella provvidenza di Dio e sollecitando la cooperazione dei buoni (”fate beni, fratelli, a voi stessi”) curò con straordinaria sollecitudine gli infermi del corpo e dello spirito. Ne continuano l’opera i Fatebenefratelli.
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Altri Santi del giorno:

* Beato Faustino Miguez Padre Scolopio
* San Felice di Dunwich Vescovo
* San Probino di Como Vescovo
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Messaggio  Attilio Citrino Sab 10 Mar - 0:09

SAN SIMPLICIO PAPA
S. Simplicio, nativo di Tivoli, esercitò il ministero pontificio dal 468 al 483, in un periodo tormentato sia per la vita della Chiesa che per quella dello Stato. Com'è noto, Odoacre, poiché non venivano soddisfatte le richieste di terre da coltivare avanzate dai suoi Eruli, troncò ogni indugio: tolto di mezzo Oreste, ne depose il figlio Romolo Augustolo, ultimo rappresentante imperiale, che relegò in una villa napoletana con una rendita annuale di 6.000 libbre d'oro, e rinviò le insegne imperiali all'imperatore d'Oriente, Zenone.
Neppure questi d'altra parte aveva una vita tranquilla, poichè proprio nel 475-476 dovette fronteggiare la rivolta di Basilisco: riuscì ad averne ragione solo con l'aiuto di Teodorico, re degli Ostrogoti, che poi spodestò anche Odoacre. Questa serie di avvicendamento non restava senza conseguenze anche per la vita della Chiesa sia in Occidente che in Oriente. Odoacre, infatti, e anche Teodorico erano seguaci dell'eresia ariana, mentre Basilisco si appoggiava nella sua rivolta particolarmente sui seguaci dell'eresia monofisita.
Il monofisismo era stato suscitato da Dioscoro, patriarca di Alessandria d'Egitto, e soprattutto dal monaco Eutiche: la sua tesi centrale, che le dava anche il nome, era che in Cristo vi è una sola natura, quella divina. Nonostante l'importante ed energico intervento di S. Leone Magno, l'eresia trionfò in occasione del cosiddetto "latrocinio di Efeso", ma due anni dopo la dottrina ortodossa venne affermata con chiarezza nel concilio di Calcedonia, che assunse come articolo di fede il documento di S. Leone Magno.
Questo concilio emanò anche il famoso canone 28, che riconosceva una preminenza del patriarcato costantinopolitano, che venne contestata come innovazione pericolosa dagli inviati di S. Leone Magno e venne combattuta anche da S. Simplicio. La controversia sul monofisismo andò avanti ancora per qualche tempo: ne fu responsabile anche l'imperatore Zenone che nel 482 tentò un impossibile compromesso con il suo Henoticon, contro il quale papa Simplicio prese netta posizione.
Oltre a questa difesa della dottrina cristiana genuina, S. Simplicio si rese benemerito per aver restaurato e dedicato alcune chiese romane come S. Stefano Rotondo e S. Bibiana, e, mostrandosi rispettoso di ogni valida arte, fu lui ad ordinare che venissero salvati dalla distruzione i mosaici pagani della chiesa di S. Andrea. Le sue reliquie si venerano a Tivoli.
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Messaggio  Attilio Citrino Sab 10 Mar - 22:09

Santo del giorno Domenica 11 marzo 2012

Ogni vita è un tempio, casa di Dio

III Domenica di Quaresima.
Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». [...] Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» [...].
Un gesto inatteso, quasi imprevedibile: Gesù che prepara una frusta, la brandisce e attraversa l'atrio del tempio come un torrente impetuoso, che travolge uomini, animali, tavoli e monete. La cosa che più mi colpisce e commuove in Gesù è vedere che in lui c'erano insieme la tenerezza, la dolcezza di una donna innamorata e la determinazione, la forza, il coraggio di un eroe sul campo di battaglia (C. Biscontin). All'avvicinarsi della Pasqua, questo gesto, e le parole che lo interpretano, risuonano carichi di profezia: Non fate della casa del Padre mio un mercato! Del tempio di Gerusalemme, di ogni chiesa, ma soprattutto del cuore.
A ogni credente Gesù ripete il suo monito: non fare mercato della fede. Non adottare con Dio la legge scadente della compravendita di favori, dove tu dai qualcosa a Dio (una Messa, un'offerta, una candela...) perché lui dia qualcosa a te. Se facciamo così, se crediamo di coinvolgere Dio in questo giuoco mercantile, siamo solo dei cambiamonete, e Gesù rovescia il nostro tavolo: Dio non si compra ed è di tutti. Non si compra neanche a prezzo della moneta più pura. Noi siamo salvi perché riceviamo. Casa di Dio è l'uomo: non fare mercato della vita! Non immiserirla alle leggi dell'economia e del denaro. Non vendere dignità e libertà in cambio di cose, non sacrificare la tua famiglia sull'altare di mammona, non sprecare il cuore riducendo i suoi sogni a oro e argento. La triste evidenza che oggi determina il bene e il male, la nuova etica sostiene: più denaro è bene, meno denaro è male. Sotto questa mannaia stolta passano le scelte, politiche o individuali. Ma «l'esistenza non è questione di affari. È solo danza, che nasce dal traboccare dell'energia» (Osho).
Non fare mercato del cuore! Non sottometterlo alla legge del più ricco, né ad altre leggi: quella del più forte, o del più astuto, o del più violento. Leggi sbagliate che stanno dentro la vita come le pecore e i buoi dentro il tempio di Gerusalemme: la sporcano, la profanano. Fuori devono stare, fuori dalla casa di Dio, che è l'uomo. Profanare l'uomo è il peggior sacrilegio che si possa commettere, soprattutto se debole, se bambino, il suo tempio più santo.
I Giudei presero la parola: Quale segno ci mostri per fare queste cose? Gesù risponde portando gli uditori su di un altro piano: Distruggete questo tempio e in tre giorni lo riedificherò. Non per una sfida a colpi di miracolo, ma perché tutt'altro è il tempio di Dio: è lui crocifisso e risorto, e in lui ogni fratello. Casa di Dio è la vita, tempio fragile, bellissimo e infinito. E se una vita vale poco, niente comunque vale quanto una vita. Perché Lui sulla mia pietra ha posato la sua luce.
(Letture: Esodo 20,1-17; Salmo 18; 1 Corinzi 1,22-25; Giovanni 2,13-25)
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Messaggio  Attilio Citrino Dom 11 Mar - 22:04

Sant' Eugenio Martire a Deuil
Santo del 12 marzo 2012
Una passio, scritta nell'850-875 (?) sotto l'influenza della abbazia di S. Dionigi, priva, peraltro, di ogni carattere storico, pretende che Eugenio fosse cittadino romano. Andando in Francia, s. Dionigi l'Aeropagita lo incontrò e gli conferì l'episcopato, assegnandogli Toledo come campo di apostolato. Dopo alcuni anni di predicazione fruttuosa, Eugenio volle rivedere Dionigi, di cui ignorava il martirio, per informarlo del suo lavoro. Fu anche lui arrestato per ordine di Fescennino Sisinnio e decapitato il 15 novembre. Gli indicò dove si trovava il corpo del martire.
Solo dato certo è che a Deuil si trovava un modesto santuario che si gloriava di possedere le reliquie di s. Eugenio e l'origine di questo culto sembra essere la deposizione delle spoglie del martire, probabilmente orientale, sotto l'altare della chiesa. Le reliquie, senza dubbio per metterle al riparo dai Normanni, furono trasferite in S. Dionigi.
Eugenio è citato il 15 novembre dal Martirologio di Wandeberto di Prum (verso l'848) e da quello di Usuardo (verso l'875), i quali, però, non parlano affatto del suo carattere episcopale. Il 18 agosto 919 (?) il suo corpo, per iniziativa del riformatore monastico, s. Gerardo, fu portato da S. Dionigi a Brogne (oggi nella diocesi di Namur). Nella descrizione di questo trasferimento Eugenio ha ricevuto il titolo di vescovo di Toledo.
Deuil, malgrado la duplice traslazione, continuò a venerare il santo. La sua chiesa, ceduta nel 1060 a s. Florenzo di Saumur, fu ricostruita nei secc. XI-XII e restaurata recentemente. Nel sec. XIII s. Eugenio appariva nei libri liturgici di Parigi e nei calendari di altre Chiese, ma solo col titolo di martire; all'opposto, l'abbazia di S. Dionigi, ispirandosi ai dati della passio, festeggiò il santo come martire e vescovo di Toledo, titolo che, sotto la influenza della stessa passio, è accordato ad Eugenio dai libri liturgici di Liegi e dal Martirologio di Echternach (cod. Paris. 10158) della fine del sec. XII.
Anche in Spagna il culto di Eugenio dipende completamente delle leggende di s. Dionigi. Non vi era, d'altra parte, nessuna venerazione liturgica prima della traslazione del 1156: il 12 febbraio di quell'anno, su richiesta di Luigi VII, re di Francia, prima, e poi del re di Castiglia, Alfonso VII, l'abate di S. Dionigi portò un braccio del santo a Toledo. Nello stesso modo, a seguito delle istanze di Filippo II, dopo Carlo X, i monaci di s. Dionigi accordarono alla cattedrale di Toledo tutto ciò che ancora possedevano di reliquie, ad eccezione di un braccio. Questa traslazione, avvenuta il 18 novembre 1565, come la precedente, pone un problema di autenticità, perché anche a Brogne si diceva di possedere il corpo intero del santo. Nel 1736 il Breviario parigino di Ventimiglia accorda a Eugenio una lezione storica, che riprende i dati leggendari della passio.
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Messaggio  okki blu Dom 11 Mar - 22:12

sul mio calendario domani è San Massimiliano di Tebessa martire..
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Messaggio  Attilio Citrino Lun 12 Mar - 22:02

13 marzo
San Rodrigo di Cordova Sacerdote e martire

Era un prete di Cordova, nell’Andalusia, regione che aveva fatto parte del regno dei Visigoti di Spagna. E si trovava in una situazione non rara in quel territorio, allora sotto il dominio arabo: uno dei suoi fratelli era rimasto cristiano e l’altro invece si era fatto musulmano. E lui, Rodrigo, morirà per mano araba, sicché viene raffigurato in genere (anche in un famoso quadro seicentesco del Murillo) con i paramenti di sacerdote e con la palma dei martiri.
Dunque: un cristiano, un prete, ucciso da musulmani. Ma non si tratta in questo caso di persecuzione; all’epoca la regione vede convivere abbastanza pacificamente musulmani, cristiani ed ebrei. Rodrigo è vittima di risse familiari, fraterne. Questo suo fratello musulmano continua a rimproverare all’altro fratello (il terzo) la sua “ostinazione” a rimanere cristiano. Rodrigo tenta di mettere pace tra i due, ma senza riuscirvi: c’è tra loro un’avversione insanabile; vedersi e litigare è tutt’uno.
Un giorno, appunto, Rodrigo li vede picchiarsi selvaggiamente e si lancia a dividerli, e allora i due si mettono a picchiare lui, che sotto i loro colpi crolla privo di sensi. A quel punto il fratello musulmano lo porta via su un carretto – sembra morto – e alla gente stupefatta dà una spiegazione bugiarda: dice che Rodrigo è gravemente malato e che, sentendo vicina la morte, si è fatto anche lui musulmano. La voce si diffonde, ma Rodrigo (nascosto nei dintorni) non ne sa nulla. Guarito, torna in Cordova sempre vestito da prete, e il suo fratello-accusatore lo trascina dal giudice musulmano: "Questo si era fatto seguace dell’Islam, e ora è tornato cristiano: ha tradito la nostra fede". Per un’accusa simile c’è la morte, mentre non si perseguita chi è e resta cristiano. Il giudice cerca di aiutare Rodrigo a salvarsi, suggerendogli perfino una dichiarazione di fedeltà all’Islam, che lo renderebbe subito libero, senza chiedergli precisi impegni sulla pratica della fede coranica. Ma Rodrigo non accetta: cristiano è, e cristiano rimane. A quel punto viene condannato a morte da un giudice riluttante, per l’insistenza di quel fratello.
Fratricidio, ben più che persecuzione. Rodrigo viene poi messo a morte con un altro cristiano di nome Salomone, condannato per lo stesso motivo. Gettati nel fiume Guadalquivir, i corpi verranno recuperati dai cristiani, che seppelliranno Rodrigo nella basilica di San Genesio, presso Cordova, e Salomone in quella vicina dei Santi Cosma e Damiano. Per entrambi la santità è proclamata subito, dal basso, attraverso il culto popolare spontaneo. La festa si celebra sin dal 1581, il 13 marzo.
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Messaggio  Attilio Citrino Mar 13 Mar - 22:42

14 marzo 2012
Santa Matilde di Germania Regina

Santa Matilde, discendente del duca Viduchindo, che aveva guidato i sassoni nella loro lunga battaglia contro Carlo Magno, nacque verso l’895 presso Engern in Sassonia da Teodorico, un conte della Westfalia, e da Rainilde, originaria della real casa danese. Ben presto Matilde fu affidata alle cure della nonna paterna, badessa di Herford, sotto la cui guida crebbe sana e forte, divenendo una donna bella, istruita e devota. Felice si rivelò il matrimonio con il figlio del duca Ottone di Sassonia, Enrico, detto “l’uccellatore” per la sua passione nella caccia del falco. Subito dopo la nascita del loro primogenito Ottone, Enrico succedette al padre e verso il 919, quando re Corrado di Germania morì senza prole, eredito anche il trono tedesco.
A causa delle frequenti guerre Enrico si allontanava spesso da casa e sia lui che i suoi sudditi attribuivano le vittorie conseguite alle preghiere ed al coraggio della regina Matilde, che nel suo palazzo conduceva a tutti gli effetti una vita monacale, generosa e caritatevole verso tutti. Suo marito nutriva nei suoi confronti una cieca fiducia e difficilmente si prendeva la briga di controllare le sue elemosine o si risentiva per le sue pratiche religiose. Nel 936, rimasta vedova, Matilde si spogliò immediatamente di tutti i suoi gioielli rinunciando ai privilegi tipici del suo rango.
Dall’unione tra Enrico e Matilde erano nati cinque figli: Enrico il Litigioso, il futuro imperatore Ottone I, San Bruno arcivescovo di Colonia, Gerburga moglie del re Luigi IV di Francia ed Edvige madre di Ugo Capeto. Enrico avrebbe preferito lasciare il trono al fratello Ottone, ma Matilde tentò di convincere i nobili ad eleggere comunque lui, suo prediletto, ma infine la spuntò Ottone. Enrico inizialmente si ribellò al fratello, ma infine riconobbe la sua supremazia e questi allora, per intercessione di Matilde, lo perdonò e lo nominò duca di Baviera. Suo figlio divenne poi imperatore col nome di Enrico II alla morte di Ottone I.
La regina Matilde conduceva una vita assai austera ed a causa delle sue ingenti elemosine si attirò le ire dei figli: Ottone la accusò infatti di sperperare il tesoro delal corona, le richiese un rendiconto delle sue spese e la fece spiare per tenere sotto controllo ogni suo movimento, ma con suo grande dolore anche il figlio favorito Enrico si schierò con il fratello appoggiando la proposta di far entrare la madre in convento onde evitare ulteriori danni al patrimonio familiare. Matilde sopportò con estrema pazienza tuttò ciò, constatando amaramente come i suoi figli si fossero riappacificati solo per perseguire i loro interessi a suo discapito. Lasciò allora tutta la sua eredità ai figli e si ritirò nella residenza di campagna ove era nata.
Era però destino che la Germania non potesse fare ameno di questa santa donna: appena partita, infatti, Enrico cadde ammalato e sorsero nuovi problemi politici. Sotto pressione del clero e dei nobili, la moglie di Ottone convinse questi a chiedere perdono alla madre, a restituirle il maltolto e richiamarla a partecipare agli affari di stato. Matilde tornò così a corte e riprese anche le sue opere di carità. Enrico continuò comunque ad essere per lei fonte di tormenti: si ribellò nuovamente al fratello Ottone e soppresse in modo sanguinoso una ribellione dei suoi sudditi bavaresi. Nel 955, quando Matilde lo vide per l’ultima volta, ne predisse la morte ed invano lo invitò a tornare sui suoi passi prima che fosse troppo tardi. Ottone invece mostrò rinnovata fiducia nella regina madre, lasciando a lei tutto il potere quando nel 962 dovette recarsi a Roma per ricevere la corona imperiale.
L’ultima riunione di famiglia ebbe luogo tre anni dopo a Colonia, in occasione della Pasqua, poi Matilde si ritirò definitivamente nei monasteri da lei fondati, in particolare a Nordhausen. Verso la fine del 967 una febbre che la disturbava ormai da tempo si aggravò ulteriormente e Matilde, presagendo la sua prossima fine, mandò a cercare Richburga, sua ex dama di compagnia ed ora badessa di Nordhausen, per spiegarle che doveva partire per Quedlinburg, luogo scelto con suo marito per la loro sepoltura. Nel gennaio 968 dunque si trasferì e suo nipote, Guglielmo di Magonza, le fece visita per darle l’assoluzione e l’estrema unzione. Desiderando ricompensarlo, non le restò però che donargli il suo sudario prevedento che ne avrebbe avuto bisogno prima lui: Guglielmo morì infatti dodici giorni prima di lei.
La santa regina spirò il 14 marzo 968 e le sue spoglie mortali erano state appena deposte in chiesa quando giunse una coperta intessuta d’oro mandata dalla figlia Gerburga per adornare il feretro. Il corpo di Matilde venne sepolto accanto a quello del marito e subito iniziò la venerazione popolare nei suoi confronti. Nelle diocesi tedesche di Paderborn, Fulda e Monaco è ancora oggi particolarmente vivo il suo culto. L’iconografia è solita raffigurare Santa Matilde con in mano il modelino di una chiesa o una borsa di denaro, simboli della sua generosità e delle sue fondazioni monastiche, quali Poehlde, Enger, Nordhausen e ben due presso Quedlinburgo.
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Messaggio  Attilio Citrino Mer 14 Mar - 23:05

SANTO DEL 15 MARZO 2012
S. Luisa di Marillac
Ascoltare il grido dei poveri, a cura di Antonio Maria Sicari

Nel secolo XVII la Francia è dominata dalla gigantesca personalità di s. Vincenzo de’ Paoli che accoglie nel suo cuore il grido d’ogni specie di poveri, convinto che “la carità è creativa all’infinito”.
Meno nota, ma ugualmente decisiva, è la figura di Luisa de’ Marillac, una giovane vedova che collaborò con lui, aiutandolo a fondare e dirigere le Figlie della Carità: la prima esperienza di donne consacrate che non si rinchiudevano in monastero, ma restavano ad agire nel mondo. Vincenzo e Luisa descrivevano così quel loro progetto: «Le suore di carità avranno per monastero le case degli ammalati. Per cella una camera d’affitto. Per cappella la chiesa parrocchiale. Per chiostro le vie della città. Per clausura l’obbedienza. Per grata il timor di Dio. Per velo la santa modestia. Per professione la confidenza costante nella divina Provvidenza e l’offerta di tutto il loro essere». In tal modo esse poterono prendersi cura degli infermi dell’Hotel-Dieu (allora abbandonati a se stessi), degli accattoni, dei trovatelli, dei carcerati, dei galeotti, degli anziani soli, dei malati mentali, e di ogni altra specie di miserabili. Ma lo facevano sempre ripetendosi che «il fine principale per il quale Dio ci ha chiamati è per amare Nostro Signore Gesù Cristo… Se ci allontaniamo anche di poco dal pensiero che i poveri sono le membra di Gesù Cristo, infallibilmente diminuiranno in noi la dolcezza e la carità».
Ambedue morirono nel 1660, a distanza di pochi mesi, col rimpianto di non aver potuto fare “di più”. Luisa, aveva chiesto a Dio che il suo cuore di donna e di madre «fosse spaccato dalla pazienza e dalla dolcezza verso il prossimo».
Il beato papa Giovanni XXIII l’ha proclamata Patrona delle Assistenti Sociali.
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Messaggio  Attilio Citrino Gio 15 Mar - 22:24

SANTO DEL 16 MARZO 2012
. Giovanni De Brébeuf
Fino a donare il cuore, a cura di Antonio Maria Sicari

Nel Seicento gli estesi territori del Canada erano contesi tra Inghilterra, Francia e Olanda, che guerreggiavano per occupare terre e garantirsi il mercato di pellicce pregiate, contendendosi anche l’alleanza o l’ostilità delle diverse tribù indiane (uroni, irochesi, algonchini).
I missionari che giungevano in quelle terre per predicare a tutti il Vangelo, si trovavano di fatto già inquadrati nella lotta, secondo la nazionalità a cui appartenevano. Così i primi gesuiti che giunsero in Canada non poterono far altro che rivolgersi agli uroni, alleati dei francesi, inimicandosi, per questo solo fatto, la feroce tribù degli irochesi.
Giovanni de Brébeuf era giunto con un gruppetto di confratelli e aveva dapprima tentato di convertire gli algonchini, passando con loro cinque mesi, riuscendo a impararne la lingua e a delineare una piccola grammatica e un vocabolario. Poi fu costretto a rivolgersi agli uroni, accanto ai quali visse tre anni, ma guardato con sospetto e in solitudine, tempo che gli servì per comporre un catechismo nella loro lingua (oggi scomparsa). Ci volle molto tempo prima che fiorissero le conversioni, ma la comunità crebbe fino a contare circa settemila battezzati. Ma tutto fu distrutto dagli irochesi, istigati dagli olandesi, che, a partire dal 1640, si applicarono allo sterminio sistematico degli uroni. Nel 1649 fu fatto prigioniero anche padre Giovanni che venne torturato in maniera indicibile: fa rabbrividire anche solo il racconto degli strani tormenti che seppero escogitare per lui.
La forza d’animo e la fede dimostrati dal missionario furono tali che, alla fine, i suoi carnefici gli strapparono il cuore per divorarlo, convinti che sarebbero così impadroniti anche del suo coraggio.
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Messaggio  Attilio Citrino Ven 16 Mar - 22:46

SANTOD EL 17 MARZO
S. Patrizio d'Irlanda
Da schiavo a Patrono, a cura di Antonio Maria Sicari

Nato in Inghilterra nel 385, fu rapito dai pirati a sedici anni e venduto schiavo in Irlanda, dove fu messo a pascolare le pecore. Patì freddo e fame, ma ebbe il dono di incontrare la vera fede e di poter ricevere il battesimo.
Dedicava alla preghiera tutto quel tempo che gli toccava vivere in solitudine con il suo gregge. Riuscì a fuggire dopo sei anni di schiavitù e avrebbe dovuto odiare quella terra a lui ostile. Invece vi tornò venticinque anni dopo come missionario. Intanto aveva studiato teologia e aveva fatto un’esperienza al monastero di Lérins, in Francia. Pare che a inviarlo in Irlanda nel 432 sia stato lo stesso Papa, che lo scelse come successore del primo vescovo irlandese, appena defunto.
Fissò la sede vescovile ad Armagh, nel nord dell’isola, dove riuscì a convertire molte migliaia di persone, pur tra l’ostilità dei sacerdoti druidi: «Ogni giorno mi aspettavo di essere ucciso», scriveva Patrizio che per un certo tempo fu anche tenuto prigioniero. Organizzò la Chiesa irlandese creando una rete di piccole comunità locali e di abbazie che, col tempo, sarebbero divenute il centro delle future città (allora inesistenti in Irlanda).
Dovette subire anche la persecuzione di alcuni falsi amici, uno dei quali lo accusò d’immoralità, propalando un’avventura sentimentale giovanile che Patrizio gli aveva confidato anni prima. «Trovarono contro di me un pretesto vecchio di trent’anni…, un peccato commesso quando ancora non conoscevo il Dio vivente», scrisse Patrizio mentre subiva pazientemente quel processo infamante, a cui seguirono altre ingiuste accuse.
A difenderlo c’era il suo popolo, e la fede fiorì in Irlanda al punto tale che sarà chiamata “l’isola dei Santi”. E l’isola scelse per sempre san Patrizio come suo patrono
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Messaggio  Attilio Citrino Sab 17 Mar - 19:34

Dio ci ama tanto da dare suo Figlio

IV Domenica di Quaresima

In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio di Dio (...)».

In questo brano Giovanni ci consegna il nucleo incandescente del suo Vangelo: Dio ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio. È il versetto centrale del quarto Vangelo, il versetto dello stupore che rinasce ogni volta, ad ogni ascolto. Il versetto dal quale scaturisce la storia di Dio con noi. Tra Dio e il mondo, due realtà che tutto dice lontanissime e divergenti, queste parole tracciano il punto di convergenza, il ponte su cui si incontrano e si abbracciano finito ed infinito: l'amore, divino nell'uomo, umano in Dio. Dio ha amato: un verbo al passato, per indicare un'azione che è da sempre, che continua nel presente, e il mondo ne è intriso: «immersi in un mare d'amore, non ce ne rendiamo conto» (G. Vannucci). Noi non siamo cristiani perché amiamo Dio. Siamo cristiani perché crediamo che Dio ci ama. Tanto da dare suo Figlio: Dio ha considerato ogni nostra persona, questo niente cui ha donato un cuore, più importante di se stesso. Ha amato me quanto ha amato Gesù. E questo sarà per sempre: io amato come Cristo. E non solo l'uomo, è il mondo intero che è amato, dice Gesù, la terra è amata, e gli animali e le piante e la creazione tutta. E se Egli ha amato il mondo, anch'io devo amare questa terra, i suoi spazi, i suoi figli, il suo verde, i suoi fiori, la sua bellezza. Terra amata.

Dio ha tanto amato, e noi come lui: «abbiamo bisogno di tanto amore per vivere bene» (J. Maritain). Quando amo in me si raddoppia la vita, aumenta la forza, sono felice. Ogni mio gesto di cura, di tenerezza, di amicizia porta in me la forza di Dio, spalanca una finestra sull'infinito. «È l'amore che fa esistere» (M. Blondel).
A queste parole la notte di Nicodemo si illumina. Lui, il fariseo pauroso, troverà il coraggio, prima impensabile, di reclamare da Pilato il corpo del crocifisso.

Dio non ha mandato il Figlio per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato, perché chi crede abbia la vita. A Dio non interessa istruire processi contro di noi, neppure per assolverci nell'ultimo giorno. La vita degli amati non è a misura di tribunale, ma a misura di fioritura e di abbraccio. Cristo, venuto come intenzione di bene, sta dentro la vita come datore di vita e ci chiama ad escludere dall'immagine che abbiamo di Lui, a escludere per sempre, qualsiasi intenzione punitiva, qualsiasi paura. L'amore non fa mai paura, e non conosce altra punizione che punire se stesso.

Dio ha tanto amato, e noi come Lui: ci impegniamo non per salvare il mondo, l'ha già salvato Lui, ma per amarlo; ci impegniamo non per convertire le persone, ma per amarle. Se non per sempre, almeno per oggi; se non tanto, almeno un po' E fare così perché così fa Dio.

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Messaggio  Attilio Citrino Dom 18 Mar - 22:04

San Giuseppe Sposo della Beata Vergine Maria
19 marzo



Il nome Giuseppe è di origine ebraica e sta a significare “Dio aggiunga”, estensivamente si può dire “aggiunto in famiglia”. Può essere che l’inizio sia avvenuto col nome del figlio di Giacobbe e Rachele, venduto per gelosia come schiavo dai fratelli. Ma è sicuramente dal padre putativo, cioè ritenuto tale, di Gesù e considerato anche come l’ultimo dei patriarchi, che il nome Giuseppe andò diventando nel tempo sempre più popolare. In Oriente dal IV secolo e in Occidente poco prima dell’XI secolo, vale a dire da quando il suo culto cominciava a diffondersi tra i cristiani. Non vi è dubbio tuttavia che la fama di quel nome si rafforzò in Europa dopo che nell’Ottocento e nel Novecento molti personaggi della storia e della cultura lo portarono laicamente, nel bene e nel male: da Francesco Giuseppe d’Asburgo a Garibaldi, da Verdi a Stalin, da Garibaldi ad Ungaretti e molti altri ancora.
San Giuseppe fu lo sposo di Maria, il capo della “sacra famiglia” nella quale nacque, misteriosamente per opera dello Spirito Santo, Gesù figlio del Dio Padre. E orientando la propria vita sulla lieve traccia di alcuni sogni, dominati dagli angeli che recavano i messaggi del Signore, diventò una luce dell’esemplare paternità. Certamente non fu un assente. È vero, fu molto silenzioso, ma fino ai trent’anni della vita del Messia, fu sempre accanto al figliolo con fede, obbedienza e disponibilità ad accettare i piani di Dio. Cominciò a scaldarlo nella povera culla della stalla, lo mise in salvo in Egitto quando fu necessario, si preoccupò nel cercarlo allorché dodicenne era “sparito’’ nel tempio, lo ebbe con sé nel lavoro di falegname, lo aiutò con Maria a crescere “in sapienza, età e grazia”. Lasciò probabilmente Gesù poco prima che “il Figlio dell’uomo” iniziasse la vita pubblica, spirando serenamente tra le sue braccia. Non a caso quel padre da secoli viene venerato anche quale patrono della buona morte.
Giuseppe era, come Maria, discendente della casa di Davide e di stirpe regale, una nobiltà nominale, perché la vita lo costrinse a fare l’artigiano del paese, a darsi da fare nell’accurata lavorazione del legno. Strumenti di lavoro per contadini e pastori nonché umili mobili ed oggetti casalinghi per le povere abitazioni della Galilea uscirono dalla sua bottega, tutti costruiti dall’abilità di quelle mani ruvide e callose.
Di lui non si sanno molte cose sicure, non più di quello che canonicamente hanno riferito gli evangelisti Matteo e Luca. Intorno alla sua figura si sbizzarrirono invece i cosiddetti vangeli apocrifi. Da molte loro leggendarie notizie presero però le distanze personalità autorevoli quali San Girolamo (347 ca.-420), Sant’Agostino (354-430) e San Tommaso d’Aquino (1225-1274). Vale la pena di riportare soltanto una leggenda che circolò intorno al suo matrimonio con Maria. In quella occasione vi sarebbe stata una gara tra gli aspiranti alla mano della giovane. Quella gara sarebbe stata vinta da Giuseppe, in quanto il bastone secco che lo rappresentava, come da regolamento, sarebbe improvvisamente e prodigiosamente fiorito. Si voleva ovviamente con ciò significare come dal ceppo inaridito del Vecchio Testamento fosse rifiorita la grazia della Redenzione.
San Giuseppe non è solamente il patrono dei padri di famiglia come “sublime modello di vigilanza e provvidenza” nonché della Chiesa universale, con festa solenne il 19 marzo. Egli è oggi anche molto festeggiato in campo liturgico e sociale il 1° maggio quale patrono degli artigiani e degli operai, così proclamato da papa Pio XII. Papa Giovanni XXIII gli affidò addirittura il Concilio Vaticano II. Vuole tuttavia la tradizione che egli sia protettore in maniera specifica di falegnami, di ebanisti e di carpentieri, ma anche di pionieri, dei senzatetto, dei Monti di Pietà e relativi prestiti su pegno. Viene addirittura pregato, forse più in passato che oggi, contro le tentazioni carnali.
Che il culto di San Giuseppe abbia raggiunto in passato vette di popolarità lo dimostrano anche le dichiarazioni di moltissime chiese relative alla presenza di sue reliquie. Per fare qualche esempio particolarmente significativo: nella chiesa di Notre-Dame di Parigi ci sarebbero gli anelli di fidanzamento, il suo e quello di Maria; Perugia possiederebbe il suo anello nuziale; nella chiesa parigina dei Foglianti si troverebbero i frammenti di una sua cintura. Ancora: ad Aquisgrana si espongono le fasce o calzari che avrebbero avvolto le sue gambe e i camaldolesi della chiesa di S. Maria degli Angeli in Firenze dichiarano di essere in possesso del suo bastone. È sicuramente un bel “aggiunto” di fede.
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Messaggio  Attilio Citrino Lun 19 Mar - 23:13

SANTO DEL GIORNO 20 MARZO
S. Giovanni Nepomuceno
Difendere il segreto di Dio, a cura di Antonio Maria Sicari
Fino a qualche decennio fa, s. Giovanni Nepomuceno (vissuto nella seconda metà del sec. XIV), nonostante la distanza spazio-temporale che ci separa da lui e la difficoltà del nome, era molto noto tra la nostra gente.
La sua storia, infatti, era sempre raccontata ai cristiani, durante la catechesi, quando si trattava di spiegare fino a che punto fosse inviolabile il segreto della confessione. Si raccontava, dunque, la vicenda di questo sacerdote di Praga che (dopo essersi laureato in teologia e diritto a Padova!) era stato chiamato ad esercitare il suo ministero alla corte del re Venceslao IV di Boemia. Costui, oltre a essere corrotto, era anche geloso della regina, Giovanna di Baviera, ed era ossessionato dal sospetto che anche lei lo tradisse.
Così, dopo averla a lungo tormentata con i suoi sospetti, finì per rivolgersi al confessore intimandogli di rivelargli i peccati che la regina gli aveva confidato e l’eventuale nome dei suoi amanti. Ma ne ebbe solo un inflessibile silenzio. Anche sotto tortura il prete restò irremovibile. Irritato, il re ordinò allora che a Giovanni di Nepomuck fosse tagliata la lingua e che lo gettassero vivo, di notte, nelle acque gelate del fiume Moldava. E si narra che, il mattino dopo, il cadavere ancora galleggiava, tutto avvolto di luce. S. Giovanni Nepomuceno è, dunque, venerato come “martire del sigillo sacramentale”. Ancora oggi, a Praga, sul Ponte Carlo cha attraversa il fiume, tra il sesto e il settimo pilastro, si vede tracciata una croce a ricordo del suo martirio. Anche in Italia sono molto numerose le chiese a lui dedicate e le sue statue poste in prossimità dei ponti. Particolarmente diffusa è la sua devozione a Venezia, e una sua statua è presente anche sul Canal Grande.
È invocato come patrono dei confessori.
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Messaggio  Attilio Citrino Mar 20 Mar - 22:15

SANTO DEL 21 MARZO
S. Nicola di Flue
È molto amato dagli svizzeri, suoi connazionali (che lo chiamano familiarmente “fratello Klaus”), sia per la santità della vita che per l’amore forte che egli ebbe per la sua patria.
Nacque nel 1417 a Flueli nel cantone di Obwalden. Pur sentendo un’indomabile inclinazione alla vita eremitica, si sposò ed ebbe dieci figli. Non disdegnò la vita militare: a 23 anni, era già capitano nell’esercito della Confederazione Svizzera e si racconta che combattesse con la spada in una mano e il rosario nell’altra, sempre pronto a proteggere gli inermi. Poi accettò vari incarichi anche politici: fu eletto podestà di Sachseln, poi consigliere, giudice cantonale e deputato alla Dieta. Solo dopo i cinquant’anni ottenne dalla moglie il permesso di ritirarsi a vita solitaria.
Passava la vita in preghiera e in lunghi digiuni. Secondo testimonianze giurate, pare che Nicola per vent’anni si sia nutrito soltanto dell’Eucaristia che riceveva una volta al mese. Incuriositi, i vicini lo controllavano a vista per vedere se digiunasse davvero come si raccontava. Si nascose allora in un burrone, da cui usciva soltanto per recarsi a Messa. Ne uscì anche nel 1473, quando l’Austria minacciava l’indipendenza della Svizzera, e nel 1481 quando ci fu il rischio che scoppiasse una guerra civile tra i Cantoni.
Il suo prestigio e la sua saggezza salvarono la nazione, tanto che gli fu riconosciuto il titolo di “Padre della Patria". Bella e molto nota è questa sua preghiera: “O mio Signore e mio Dio, allontana da me tutto ciò che mi allontana da te. O mio Signore e mio Dio, elargiscimi tutto ciò che mi porta più vicino a te. O mio Signore e mio Dio, liberami da me stesso e concedimi di possedere soltanto te”.
Morì il giorno in cui compiva settant’anni e la sua tomba è ancora oggi meta di pellegrinaggi.
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Messaggio  Attilio Citrino Mer 21 Mar - 23:01

SANTO DEL 22 MARZO
B. Clemente Augusto Von Galen

Il "Leone di Münster", a cura di Antonio Maria Sicari

Apparteneva a una famiglia nobiliare tedesca ed era stato eletto Vescovo di Münster, proprio nel 1933, quando Hitler saliva al potere. Subito pubblicò una Lettera Pastorale per smascherare il paganesimo dell’ideologia nazista, definendola: «una nuova nefasta dottrina totalitaria che pone la razza al di sopra della moralità, pone il sangue al di sopra della legge [...] e mira a distruggere le fondamenta del cristianesimo». E aggiungeva: «Questo attacco anticristiano che stiamo sperimentando ai nostri giorni supera, in quanto a violenza distruttrice, tutti gli altri di cui abbiamo conoscenza dai tempi più lontani».

Negli anni successivi le pubbliche denuncie, dal pulpito della Cattedrale, si susseguirono senza sosta. Le sue Omelie, contro ogni violazione dei diritti umani (soprattutto contro il progetto nazista di eliminare le vite definite “improduttive e senza valore”) venivano diffuse clandestinamente in tutta la Germania a rischio della vita, e risuonavano nel mondo intero.

Nel 1942, in piena guerra, il New York Times definiva il vescovo von Galen «l’oppositore più ostinato del programma nazionalsocialista anticristiano». Alcuni gerarchi nazisti avrebbero voluto farlo impiccare, ma si oppose Goebbels perché temeva di “perdere il sostegno di tutta la Westfalia”. Decisero perciò di saldargli il conto a guerra finita. Per ritorsione vennero però deportati centinaia di fedeli, 24 sacerdoti e 18 religiosi, molti dei quali morirono martiri.

Quando, nel 1946, Pio XII conferì a von Galen la porpora cardinalizia, i giornali definirono il nuovo Cardinale “il Leone di Münster”. Tornato in patria, fu accolto da un’immensa folla entusiasta. Ma gli restavano da vivere soltanto pochi giorni.

È stato beatificato in San Pietro il 9 ottobre 2005, da papa Benedetto XVI.
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Messaggio  Attilio Citrino Gio 22 Mar - 21:47

SANTO DEL 23 MARZO
S. Turibio De Mongrovejo

Vero Padre e Pastore, a cura di Antonio Maria Sicari

Filippo II di Spagna, detto “il Re cattolicissimo”, non poteva restare indifferente davanti alle notizie che gli giungevano dal “nuovo mondo”: gli indios venivano schiavizzati e i "conquistadores", avidi di denaro e di piaceri, si comportavano “come lupi rabbiosi tra agnelli mansueti”. Per porre rimedio a tanto male, capì che non bastavano gli editti imperiali, ma occorrevano “uomini nuovi”. Così ottenne dal papa che un giurista dell’università di Salamanca, Turibio de Mogrovejo, (un laico!) fosse nominato e consacrato vescovo di Ciudad de Los Reyes (l’attuale Lima), una diocesi che allora si estendeva per centinaia di migliaia di chilometri.

In quelle terre Turibio giunse nel 1581, a quarantatré anni d’età, come un vero padre e pastore: aveva imparato l’antica lingua locale, il quechua, per poter parlare anche ai più poveri e cominciò a viaggiare ininterrottamente per raggiungere e conoscere tutti i suoi fedeli. Convocò un Concilio Generale per l’America Latina, organizzò otto diocesi, aprì il primo seminario del continente americano, e fece pubblicare catechismi e libri di preghiere nelle lingue locali. Da tutti esigeva che gli indios venissero rispettati nella loro dignità, nei loro averi, nei loro costumi e nelle loro credenze. Era sempre tra loro, mentre non lo si vedeva quasi mai nei palazzi dei potenti.

Fu definito «instancabile messaggero d'amore». Nel 1594 poteva scrivere a Filippo II d’aver già amministrato la Cresima a circa sessantamila fedeli. E non sapeva che tra di essi c’erano tre futuri santi: Rosa da Lima, Martino de Porres e Francesco Solano. Morì nel Giovedì Santo del 1606, in una cappellina india nel nord del Paese, durante uno dei suoi interminabili viaggi.

È patrono dei vescovi sudamericani.
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Messaggio  Attilio Citrino Ven 23 Mar - 21:59

24 MARZO 2012
S. Caterina di Svezia
È figlia di santa Brigida di Svezia, la grande mistica che Giovanni Paolo II ha nominato compatrona d’Europa, per l’influsso che ebbe sull’intero continente con i suoi pellegrinaggi, con le sue visioni, con le sue preghiere, con i suoi miracoli e col suo lungo soggiorno nella città di Roma.
Caterina, che si era sposata giovanissima, rimase vedova a diciannove anni, mentre si trovava a Roma per il Giubileo del 1350, in visita presso la madre. Decise allora di restare con lei e di aiutarla nella sua missione di ridare dignità alla città di Roma, abbandonata dai papi e in preda al degrado e alla violenza. La accompagnò anche nel suo celebre pellegrinaggio a Gerusalemme.
All’intercessione di Caterina la leggenda attribuisce la salvezza di Roma da una piena del Tevere che aveva già rotto gli argini: episodio raffigurato in un dipinto della cappella a lei dedicata, nella “casa di s. Brigida” in piazza Farnese. Nel 1375, alla morte della mamma Caterina (con un viaggio avventuroso) ne riportò in patria il corpo facendolo tumulare nell’abbazia di Vadstena, e vi prese il velo monastico. Ma ritornò subito a Roma, per altri cinque anni, per seguire la causa di beatificazione di Brigida. Ebbe così l’occasione di incontrasi con s. Caterina da Siena e di lavorare con lei in difesa del pontefice Urbano VIII, al tempo del grande scisma.
Tornata a Vadstena nel 1380, vi fu eletta abbadessa, ma vi morì l’anno successivo, lasciando il ricordo di una grande virtù. Non è stata mai canonizzata ufficialmente, ma è sempre stata considerata santa dalla unanime devozione popolare.
La sua protezione è invocata contro gli aborti spontanei.
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Messaggio  Attilio Citrino Dom 25 Mar - 10:12

Morire a se stessi moltiplica la vita
V Domenica di Quaresima
In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c'erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù». Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l'ora che il Figlio dell'uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna .
Vogliamo vedere Gesù. Grande domanda dei cercatori di sempre, domanda che sento mia. La risposta di Gesù dona occhi profondi: se volete capire me, guardate il chicco di grano; se volete vedermi, guardate la croce. Il chicco di grano e la croce, due immagini come sintesi ardente dell'evento Gesù.
Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Una frase difficile e anche pericolosa se capita male, perché può legittimare una visione doloristica e infelice della religione.
Un verbo balza subito in evidenza per la sua presa emotiva: morire, non morire. Ipotesi o necessità, pare oscurare tutto il resto, mentre invece è l'inganno di una lettura superficiale. L'azione principale, lo scopo verso cui tutto converge, il verbo che regge l'intera costruzione è «produrre»: il chicco produce molto frutto.
L'accento non è sulla morte, ma sulla vita. Gloria di Dio non è il morire, ma il molto frutto buono.
Osserviamo un granello di frumento, un qualsiasi seme: nessun segno di vita, un guscio spento e inerte, che in realtà è un forziere, un piccolo vulcano di vita. Caduto in terra, il seme muore alla sua forma ma rinasce in forma di germe, non uno che si sacrifica per l'altro - seme e germe non sono due cose diverse, sono la stessa cosa - ma tutto trasformato in più vita: la gemma si muta in fiore, il fiore in frutto, il frutto in seme. Nel ciclo vitale come in quello spirituale «la vita non è tolta ma trasformata» (Liturgia dei defunti), non perdita ma espansione.
Ogni uomo e donna sono chicco di grano, seminato nei solchi della storia, della famiglia, dell'ambiente di lavoro e chiamato al molto frutto. Se sei generoso di te, di tempo cuore intelligenza; se ti dedichi, come un atleta, uno scienziato o un innamorato al tuo scopo, allora produci molto frutto. Se sei generoso, non perdi ma moltiplichi la vita.
La seconda icona è la croce, l'immagine più pura e più alta che Dio ha dato di se stesso. «Per sapere chi sia Dio devo solo inginocchiarmi ai piedi della Croce» (Karl Rahner). Dio entra nella morte perché là va ogni suo figlio. Ma dalla morte risorge come un germe di vita indistruttibile, e ci trascina fuori, in alto, con sé.
Gesù è così: un chicco di grano, che si consuma e fiorisce; una croce, dove già respira la risurrezione. Io sono cristiano per attrazione: attirerò tutti a me. E la mia fede è contemplazione del volto del Dio crocifisso.
«La Croce non ci fu data per capirla ma perché ci aggrappassimo ad essa» (Bonhoeffer): attratto da qualcosa che non capisco ma che mi seduce, mi aggrappo alla sua Croce, cammino dietro a Cristo, morente in eterno, in eterno risorgente.
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