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La lingua di Gesù

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Messaggio  Rossano Madia Mar 15 Feb - 19:01


I Vangeli ci hanno tramandato le parole di Gesù, i detti originali, i suoi discorsi improvvisati, gli insegnamenti, le parabole e l’applicazione originale, di questo genere narrativo, che costituisce qualcosa di veramente nuovo rispetto alla letteratura rabbinica anteriore e contemporanea. Ma di questo insegnamento parabolico, caratteristica peculiare del Gesù terreno, avremo modo di parlare in seguito.

Ora mi domando: che lingua parlava Gesù?

Una prima risposta la possiamo trovare nei quattro Vangeli canonici, che sono stati scritti in un tipo di greco chiamato Koiné, anche se vi si trovano notevoli tracce di influsso semitico. Ma la cosa che sorprende ed incuriosisce un lettore attento dei vangeli, è che nei quattro testi canonici che noi conosciamo, sono riportate parole ed espressioni in aramaico.
Una lingua semitica, molto simile all’ebraico ed al fenicio, che il popolo di Israele aveva appreso nel periodo doloroso della cattività Babilonese e che era diventata, così, la lingua parlata in Palestina.
Quindi l’aramaico era la lingua parlata da Gesù, dai suoi primi discepoli e dal popolo ebreo.

E allora succede che leggendo, o ascoltando con attenzione certe parole, o locuzioni pronunciate da Gesù e tramandate nella sua lingua originale, si resta col fiato sospeso.
E’ evidente che gli evangelisti hanno voluto tramandare non solo la parola ed il suo significato, ma anche il suo stesso suono, così com’è fuoriuscito dalle labbra del Nazareno.
Essi per primi, quindi, hanno pensato che, traducendo questi detti in greco, come hanno fatto con tutto il resto, avrebbero forse reso un significato non proprio fedele all’originale.
Nel loro impegno di traduzione in greco delle memorie più antiche, sia orali che quelle scritte in aramaico, coloro che hanno redatto i testi dei vangeli si sono fermati, come di fronte ad uno sbarramento invisibile, quando hanno dovuto dare un’interpretazione di certe parole uscite dalle labbra di Gesù.
Sono termini che ascoltiamo spesso, distrattamente, senza pensarci su, nelle nostre liturgie.
Eppure essi hanno provocato un dietrofront all’agiografo di turno, che si tratti di Matteo, o Marco particolarmente.
Entrambi, infatti, hanno preferito riportare i termini tali e quali come provenivano dalle tradizioni precedenti.
Si tratta di parole che risalgono allo stadio Gesuano.
Sono, cioè, considerate, dagli studiosi, come pronunciate dallo stesso Gesù.
E se sono state trasmesse senza traduzione, questo significa che lo scrittore sacro ha voluto rendere un grande servigio al Maestro di Galilea le cui parole sono rimaste fortemente impressionate nelle varie tradizioni.
E poi anche ai suoi lettori, per far sì che essi potessero percepire il suono, la voce, l’afflato, la potenza celata, ed ora manifesta della sua missione, l’ordine dato al male di “farsi da parte”, perché c’è Qualcuno che è venuto per vincere il dolore, il male e la morte.
Sono parole che conservano tuttora il loro fascino originario, come Talità kum, che significa: "Fanciulla, io ti dico, alzati!", la parola autorevole, con il quale Gesù fa risorgere, in nome proprio, la giovane figlia di Giairo. Oppure, Effatà, che vuol dire "Apriti", l’espressione con la quale egli guarisce un sordomuto, in forza di una Potenza che esce da lui.
O anche Abbà, l'invocazione con la quale Gesù si rivolge al Padre rivelando, in maniera unica ed irripetibile, la sua intimità con il Padre Celeste.
Infine, possiamo aggiungere: "Elì, Elì, lemà Sabactani", che significa: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato"

Voi cosa pensate in merito ?
Sarebbe interessante avere un opinione di Don Francesco.
Rossano Madia
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Messaggio  Saro Fedele Mer 29 Giu - 18:56

Visto che da febbraio nessuno le ha risposto le riporto di seguito alcuni stralci di una enciclopedia biblica che le potrebbero essere utili:

"Che lingua parlava Gesù? Fra gli studiosi le opinioni in merito sono contrastanti. Tuttavia, a proposito delle lingue parlate in Palestina quando Gesù era sulla terra, G. Ernest Wright afferma: “Per le vie delle città principali senza dubbio si sentivano parlare diverse lingue. Il greco e l’aramaico erano evidentemente le lingue comuni, e la maggioranza delle popolazioni urbane probabilmente le capivano entrambe, anche in città ‘moderne’ e ‘occidentali’ come Cesarea e Samaria dove il greco era più comune. Ufficiali e soldati romani potevano conversare in latino, mentre gli ebrei ortodossi potevano benissimo parlare fra loro un ebraico tardo, lingua che sappiamo non era né l’ebraico classico né l’aramaico, nonostante le analogie con entrambi”. Inoltre, a proposito della lingua parlata da Gesù Cristo, Wright osserva: “Si è molto discusso sulla lingua parlata da Gesù. Non c’è modo di sapere con sicurezza se egli sapeva parlare greco o latino, ma nel suo ministero di insegnante usava abitualmente l’aramaico o l’ebraico popolare che aveva subìto notevoli influssi aramaici. Quando Paolo si rivolse alla folla nel Tempio, viene detto che parlò in ebraico (Atti 21:40). Gli studiosi in genere ritengono che si trattasse di aramaico, ma è senz’altro possibile che la lingua comune fra gli ebrei fosse allora un ebraico popolare”. — Biblical Archaeology, 1963, p. 243.
È possibile che Gesù e i primi discepoli, come l’apostolo Pietro, almeno a volte parlassero l’aramaico della Galilea, poiché la notte in cui Gesù fu arrestato, Pietro si sentì dire: “Certamente anche tu sei uno di loro, poiché, infatti, il tuo dialetto ti fa riconoscere”. (Mt 26:73) Può darsi che questo sia stato detto perché l’apostolo in quel momento parlava l’aramaico della Galilea, anche se non è sicuro, oppure poteva parlare un dialetto ebraico parlato in Galilea differente da quello parlato a Gerusalemme o altrove nella Giudea. Precedentemente Gesù, quando andò a Nazaret in Galilea ed entrò nella sinagoga locale, lesse dalla profezia di Isaia, scritta in ebraico, e poi disse: “Oggi questa scrittura che avete appena udito si è adempiuta”. Nulla viene detto circa il fatto che Gesù abbia tradotto questo brano in aramaico. È dunque probabile che in quell’occasione i presenti capissero bene l’ebraico biblico. (Lu 4:16-21) Si noti inoltre che Atti 6:1, riferendosi a un episodio accaduto poco dopo la Pentecoste del 33 E.V., dice che a Gerusalemme c’erano sia ebrei di lingua greca che ebrei di lingua ebraica.
Uno studioso rileva che il fatto che l’aramaico fosse la lingua scritta della Palestina quando Gesù era sulla terra non significa di per sé che fosse la lingua parlata dal popolo. Inoltre, il fatto che i papiri di Elefantina appartenenti a una colonia ebraica in Egitto fossero scritti in aramaico non significa che fosse la lingua comune o principale in patria, perché l’aramaico era all’epoca la lingua letteraria internazionale. Naturalmente nelle Scritture Greche Cristiane sono presenti alcuni aramaismi, e Gesù stesso usa certe parole aramaiche. Tuttavia, come sostiene questo studioso, forse Gesù normalmente parlava l’ebraico popolare, pur usando a volte espressioni aramaiche. — H. Birkeland, The Language of Jesus, Oslo, 1954, pp. 10, 11.
Anche se non si può dimostrare, come afferma Birkeland, che il popolo comune fosse illetterato per quanto concerneva l’aramaico, sembra che quando Luca, un medico colto, riporta ciò che Paolo aveva detto agli ebrei ‘in ebraico’, intenda in effetti una forma di ebraico (anche se non l’ebraico antico) e non l’aramaico. — At 22:2; 26:14.
Un’ulteriore conferma dell’uso di una forma di ebraico in Palestina quando Gesù Cristo era sulla terra viene da antiche fonti secondo le quali l’apostolo Matteo scrisse prima il suo Vangelo in ebraico. Per esempio, Eusebio (del III e IV secolo E.V.) dice che “l’evangelista Matteo produsse il suo Vangelo nella lingua ebraica”. (J. P. Migne, Patrologia Graeca, vol. 22, col. 941) E Girolamo (del IV e V secolo E.V.) nella sua opera De viris inlustribus (Sugli uomini illustri), capitolo III, afferma: “Matteo, che è anche Levi, e che da pubblicano divenne apostolo, per primo compose un Vangelo di Cristo in Giudea nella lingua e nei caratteri ebraici, a beneficio di quelli della circoncisione che avevano creduto. . . . Inoltre l’ebraico stesso è conservato fino a questo giorno nella biblioteca di Cesarea, che il martire Panfilo collezionò così diligentemente”. (Dal testo latino a cura di E. C. Richardson, pubblicato nella serie “Texte und Untersuchungen zur Geschichte der altchristlichen Literatur”, Lipsia, 1896, vol. 14, pp. 8, 9). Quindi sulla terra l’uomo Gesù Cristo può benissimo aver usato una forma di ebraico e un dialetto aramaico
."

La saluto, sperando di esserle stato d'aiuto.

Saro Fedele

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Messaggio  armando mirante Gio 30 Giu - 3:42


Sul soggetto riguardo la lingua che parlava Gesu', ho trovato questo articolo e questo video che sembrono interessanti.
Saluti


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Video link

http://www.cbsnews.com/stories/2007/09/06/eveningnews/main3240190.shtml


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Malula, dove l'aramaico vive ancora


Il disco arancione intenso del sole si smorza lentamente dietro la montagna frastagliata, l’aspra falesia di roccia, risultato di millenarie sedimentazioni eoliche e di innalzamenti geologici: ai piedi dell’asperità più scoscesa un piccolo villaggio abbarbicato lungo i fianchi di un canyon, che divide in due il cuore della montagna, quasi ferendola, piomba nella semioscurità e subito aiuta la fioca luce del tramonto, premessa della stellata notturna, con l’illuminazione artificiale delle lampade ad olio.

È la comunità di qualche centinaia di anime di Malula, piccolo borgo siriano, sito a 45 km a nord di Damasco: qui, in un paesaggio lunare, capace di ammaliare e trasmettere sensazioni pregnanti con l’aspra catena montuosa che separa il deserto della Siria orientale dalle verdi colline dell’Antilibano ad occidente; qui una comunità ancora virginale, con radici antichissime, con scarse contaminazioni culturali, dà vita a tutt’oggi a un fenomeno linguisticamente unico: sono infatti molti a parlare, oltre all’arabo, l’aramaico, l’antica lingua di Gesù e dei suoi discepoli, diffusa nella Palestina di duemila anni fa. I glottologi sostengono che le variazioni rispetto al modello originario sarebbero minime; e – fatto ancor più eccezionale – i vecchi del villaggio riescono a intessere dialoghi in questo idioma arcano, non limitandosi a usarlo nella liturgia e nella recitazione di preghiere.

Sì perché Malula è il simbolo per eccellenza della religione cristiana nell’intera Siria, nazione moderna, che può essere presa a modello quale esempio di convivenza pacifica tra due religioni, troppo spesso in altri Paesi mediorientali (ad iniziare dall’Egitto) in drammatico conflitto tra loro. Malula infatti, quasi vivacizzata da un simile unicum linguistico, si innerva e riposa tutta sulla profonda fede, che sgorga pura dai due monasteri, posti alla sommità del borgo, quasi a sua protezione. San Sergio e Bacco è sede di una confraternita di monaci di cristallina spiritualità, ma non isolati, anzi molto attivi – com’è secolare tradizione delle esperienze cenobite di queste regioni – nel dialogo col mondo e nell’accoglienza e nel mutuo scambio di opinioni con pellegrini, a loro volta affascinati del profondo sentimento di fede, che promana da simili luoghi arcani e selvaggi.

E non mancano – è evidente – le attività commerciali, quelle da sempre tipiche dei cenobi, volte a fornire un contributo essenziale all’economia di base del gruppo religioso: a Santa Tecla, l’altro grande monastero, sede di un’antica comunità religiosa, viene prodotto un vin santo delizioso, fatto di uve pregiate, raccolte nei vigneti sottostanti Malula e lavorate ancora con tradizionali sistemi di pigiatura. Altri prodotti della terra vengono venduti, così come piccole croci e icone artigianali intarsiate in legno, per il fedele prezioso ricordo di una comunità alacre. «Qui è la forza di una natura selvaggia, unita alla consapevolezza di una fede atavica, che anima li nostro quotidiano. Quotidiano scandito da momenti di preghiera, comune e individuale, alternati ad attività di lavoro», ricorda un monaco di San Sergio e Bacco: di origine libanese, il religioso parla perfettamente la nostra lingua grazie a prolungati soggiorni di studi teologici a Roma. Ulteriore momento di intensità spirituale lo viviamo sempre nel corso della visita del monastero di San Sergio e Bacco, posto a capo del villaggio, in una posizione non distante da Santa Tecla, che più in alto domina e simbolicamente protegge Malula.

All’interno della chiesetta, ecco uno spazio sacro, una piccola cappellina, dedicata alla Madonna e illuminata dalla luce fioca e tremolante di sparute candele: qui una donna di mezza età, interamente vestita in nero e avvolta in un foulard scuro, a indicarne la profonda devozione mariana, recita le lodi alla Vergine; la luce delle candele guizzando disegna giochi di ombra sui suoi occhi, vivificati come spilli infiammati dalla forza della fede; è un’immagine a tratti sovrumana, che emoziona e ben esemplifica l’intensità di un sentimento religioso, che non è banale routine. Così come non è banale routine la recita del Padre Nostro nell’antica lingua di Nostro Signore: davanti a Santa Tecla, su uno sperone di roccia con l’infinito dell’impervia montagna alle spalle, una ragazza di giovane età, i capelli liberi al vento, gli occhi socchiusi e il volto ispirato, intona frasi misteriose: la formulazione della più viva preghiera della cristianità, nella sua versione originaria e per questo più coinvolgente, per giunta in uno scenario naturale di incomparabile bellezza.



Aristide Malnati
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